Applicazione congiunta della Psicoterapia Transculturale e dell’Etnopsichiatria

Applicazione congiunta della Psicoterapia Transculturale e dell’Etnopsichiatria

Perché?

La cultura occidentale è, sotto certi aspetti, ancora caratterizzata dall’antica antinomia greca tra “cittadino” – colui che vive nella polis – e “barbaro” – colui che vive fuori. Il colonialismo ed il neo-darwinismo del XVIII e XIX secolo hanno reificato questa antinomia. Le migrazioni del XXI secolo, infine, hanno riproposto queste rappresentazioni occidentali del binomio appartenenza-alterità, che tende immediatamente ad essere ritradotto nella polarità amico-nemico, testimoniando la loro immutabilità nel tempo.

Gli approcci psicoterapeutici si dividono tra quelli che hanno il massimo rispetto dell’altro e prevedono la rivisitazione delle nostre categorie e quelli che, al contrario, hanno massimo rispetto delle nostre categorie e di conseguenza le utilizzano per interpretare l’alterità. Il contrasto tra i due tipi di approccio teorico si è rivelato improduttivo, soprattutto in ambito clinico. A livello delle scienze sociali, si è ormai consapevoli che non è possibile stabilire in assoluto la maggiore validità di un tipo di teoria rispetto ad un’altra.

L’approccio etico, su cui si basa la Psicoterapia Transculturale, non può essere definito “superiore” di quello emico dell’etnopsichiatria, e viceversa. Non è pensabile avere il perfetto punto di vista scientifico come non è pensabile avere un perfetto punto di vista del paziente o della sua terapia. Esistono tuttavia delle “terze vie” che tendono alla integrazione, appunto. L’approccio Cognitivo comportamentale si dimostra particolarmente flessibile ed adattativo rispetto ai propri assunti nei riguardi delle realtà diverse.

L’atteggiamento più proficuo, quindi, non esclude una parte o l’altra bensì ricerca la loro integrazione. Con l’integrazione si riesce a mantenere un’etica che prevede atti responsabili, valutati, studiati, frutto di preparazione e di confronto tra le diverse teorie e le nostre coordinate spaziali e temporali.

L’integrazione permette di agire senza perdersi dietro speculazioni teoriche, con la consapevolezza che non sono possibili ed attuabili categorie universali e universalmente valide, non solo rispetto alla cultura e alla società, ma anche rispetto alla interpersonalità.

A cosa serve?

L’arrivo nella nostra cultura di diversi e variegati soggetti migranti impone ai medici, agli psicologici e agli psicoterapeuti così come agli altri operatori sanitari, la conoscenza delle peculiarità delle sindromi cliniche che caratterizzano la nostra società. Ciò si traduce in un aspetto dell’integrazione, che consiste nell’incontro tra le nostre teorie della malattia e della cura e quelle di altre culture.

L’integrazione, però, richiede anche la capacità di orientarsi tra l’approccio bio-psico-sociale – che caratterizza la nostra cultura – e quello magico-religioso che prevale in molte culture “altre”.

Le domande a riguardo sono molte. In particolare:

  • si può escludere un mondo per favorirne un altro? Chi ci conferisce tanta onnipotenza?
  • il sistema bio-psico-sociale occidentale, a cui appartiene la psicologia, in realtà è usato solo da un quarto della popolazione umana; il resto usa sistemi terapeutici che rimandano all’universo magico-religioso. Come è possibile integrare nella pratica clinica odierna queste due diverse concezioni che per noi occidentali, da Cartesio in poi, si escludono a vicenda?

La diversità, fino all’inizio del nostro secolo, risiedeva lontano da noi, in Africa e in Asia. Questa nostra era, che attraversa gli ultimi cinquanta anni, ci ha fatto conoscere quei posti lontani attraverso il turismo.

In Europa, attualmente, ci sono migranti che hanno raggiunto la terza generazione; i loro figli frequentano le nostre scuole, le famiglie miste sono in aumento; arrivano da noi rifugiati e vittime di tortura, vittime della tratta, lavoratori stagionali e residenziali.

Tuttavia migrare non è una cosa facile. Sono noti da tempo gli studi sui disagi dei migranti che possono divenire dei disturbi, essendo appunto la migrazione un periodo di vulnerabilità nella vita umana.

Gestire il disagio o il vero e proprio disturbo psichico di un paziente di un’altra cultura può essere molto complicato per due ordini di motivi:

  1. ciò che è scontato tra un paziente occidentale e il suo terapeuta diviene un territorio incerto, se il paziente è straniero. In questo contesto, molti terapeuti non sono preparati a riconoscere importanti variabili diagnostiche e terapeutiche, data la velocità e la novità del fenomeno migratorio.
  2.  il paziente, allo stesso tempo, potrebbe non essere d’aiuto nella comprensione della sua situazione, poiché i suoi indicatori di malessere sono a noi sconosciuti.

Qualcuno ha detto, ironizzando sull’incontro tra un terapeuta occidentale e un paziente di diversa provenienza, che “il terapeuta non sa come curare e lo straniero non sa come ammalarsi…”. Con questo si intende evidenziare l’incontro al confine di due culture, quella della cura e quella della malattia.

Ancora una volta, è possibile trovare risposte e soluzioni solo nello sforzo di integrazione. Solo l’integrazione dei saperi occidentali con quelli delle culture “altre” può portare ad una comprensione dei valori in gioco nella relazione medico-paziente.

L’esperienza clinica e la formazione specifica sono le nostre guide in questo difficile e affascinante cammino.

In cosa consiste?

I punti fondamentali su cui si basa l’applicazione congiunta sono i seguenti:

  • Imparare ad usare le ricchezze delle pratiche cliniche sviluppate in occidente, esaminandole e confrontandole tra loro.
  • Sviluppare un dialogo tra le diverse culture.
  • Imparare a valutare le medicine “altre”, soprattutto i loro approcci olistici e naturalistici alla malattia.
  • Imparare a confrontarsi continuamente con la cultura contemporanea della salute e delle malattia.
  • Saper comprendere, nello specifico, le manifestazioni pre-cliniche e le sindromi collegate ai fenomeni migratori.
  • Sviluppare un sistema di rete efficace e funzionale formato da medici, psicoterapeuti, psicologi specialisti del settore assistenti sociali, curatori, comunità di riferimento e figure affidabili.
  • Impegnarsi nella formazione continua.
  • Strutturare un programma medico e psicologico di orientamento ed intervento clinico competente, efficace, comprensivo, flessibile, accessibile, qualunque sia la cultura di appartenenza e nel rispetto dell’alterità.
  • Dedicarsi al trattamento del paziente, senza perdersi in astrattismi teorici e applicativi tesi alla supremazia di un approccio rispetto ad un altro.

A chi è rivolta?

L’applicazione congiunta può essere utile a medici, psichiatri, psicoterapeuti, psicologi e operatori specialisti del settore della migrazione.

Campi di applicazione

Non è facile delimitare dei campi di applicazione, dal momento che il fenomeno della migrazione coinvolge tutta la società, a vari livelli. Il settore d’azione è vario, flessibile e mutevole, e non necessariamente relegato in ambito sanitario o socio-assistenziale. La necessità di cambiamento è insita nella natura umana: le migrazioni ne sono una manifestazione e hanno portato una sferzata di energia e nuove potenzialità alla cultura moderna, che aveva rallentato la sua corsa.

In un contesto socioculturale come il nostro non è possibile ignorare le tematiche che emergono dall’incontro, e spesso dallo scontro, tra i diversi flussi migratori e la cultura dominante.

Soprattutto in campo assistenziale e psicoterapeutico, rifiutarsi di prendere in considerazione le sfumature create dai processi migratori significa relegarsi in un contesto di “convinzioni” asettico, rigido e statico, in contrasto con le necessità di dinamismo, flessibilità e cambiamento continuo che caratterizzano la società odierna.

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