Disturbo bipolare o depressione? La risonanza magnetica come supporto alla diagnosi

Disturbo bipolare o depressione? La risonanza magnetica come supporto alla diagnosi

Disturbo bipolare

Sono cresciuto a due passi dal mare. Mi ha insegnato una roba importantissima: avere una visione ampia. Sì, perché il mare cambia, continuamente. E allora non lo si può capire segmentandolo, bisogna osservarne il flusso per comprenderne la quintessenza. In psicoterapia tengo a mente questo insegnamento: l’umore della persona che ho davanti come si muove? Ristagna costantemente in questo stato di abbattimento? Oppure viaggia sulle montagne russe passando dalle vette della mania alle voragini della depressione? Quando parliamo di disturbi dell’umore (e non solo) noi clinici abbiamo il dovere di avere una visione il più possibile estesa in modo da cogliere le strutture portanti. È fondamentale, potrebbe fare la differenza nella vita dei pazienti.

Secondo la letteratura fino al 60% dei pazienti con disturbo bipolare viene erroneamente diagnosticato un disturbo depressivo maggiore, poiché il più delle volte esso esordisce con una fase depressiva caratterizzata da sintomi simili alla depressione unipolare. Un dato allarmante se si pensa alle sue conseguenze, ovvero un trattamento non adeguato con conseguenti ricadute sulla prognosi e sulla qualità di vita delle persone coinvolte.

“[…] distinguerli può essere difficile e rappresenta una sfida clinica importante in quanto il trattamento varia notevolmente a seconda della diagnosi primaria”, afferma il dott. Mayuresh Korgaonkar, capo della ricerca condotta presso l’Università di Sidney. “Identificare i marker cerebrali in grado di distinguerli in modo affidabile porterebbe un immenso beneficio da un punto di vista clinico”. Ed è proprio l’obiettivo del team di ricerca dell’Università australiana.

Lo studio (Korgaonkar et al., 2018) ha coinvolto 81 individui di età compresa tra i 18 e i 60 anni: 31 pazienti con disturbo bipolare in remissione, 25 con disturbo depressivo maggiore in remissione, 25 soggetti di controllo sani.

Gli individui con disturbo bipolare sono stati abbinati al gruppo con depressione maggiore in base a età, sesso, numero di episodi depressivi e gravità della depressione. A loro volta, entrambi i gruppi sono stati abbinati al gruppo di controllo per età e sesso.

L’obiettivo era indagare l’attivazione e le connessioni dell’amigdala (un’area del cervello che svolge un ruolo chiave nell’elaborazione delle emozioni) con altre aree cerebrali tramite risonanza magnetica funzionale, durante due compiti di elaborazione passiva di espressioni facciali di rabbia, paura, tristezza, disgusto, felicità ed espressioni neutre. Nel primo compito di elaborazione emotiva supraliminale, ai partecipanti venivano mostrati volti con diverse espressioni emotive, ognuno per la durata di 500ms. Nel compito subliminale, i volti presentati erano gli stessi; tuttavia, la durata del volto mostrato era di 10 ms.

Sulla base di precedenti studi che hanno confrontato pazienti bipolari e unipolari in fase depressiva, i ricercatori australiani hanno ipotizzato che l’attività dell’amigdala in risposta all’elaborazione emotiva suscitata da una serie di emozioni facciali potesse differenziare i due disturbi in remissione.

Dallo studio è emerso che la reattività e la connettività della parte sinistra dell’amigdala in risposta all’elaborazione delle emozioni provocate da una serie di emozioni facciali differenziavano con successo il disturbo bipolare e i disturbi depressivi maggiori in entrambi i compiti, con un’accuratezza dell’80%.

Questo tipo di marker potrebbe “[…] aiutarci a capire meglio entrambi i disturbi, identificare i fattori di rischio per il loro sviluppo e consentire potenzialmente una diagnosi chiara sin dall’inizio”, ha affermato il dott. Korgaonkar.

È importante sottolineare che entrambi i gruppi di pazienti non erano sintomatici, suggerendo che i substrati neurali per l’elaborazione delle emozioni possano persistere in gran parte indipendentemente dallo stato di malattia e potrebbero eventualmente servire da marker per distinguere questi disturbi.

I ricercatori hanno messo in luce alcuni limiti su cui lavorare nelle ricerche future. Innanzitutto, lo studio ha coinvolto pazienti asintomatici, ma sarà necessario condurre studi con gruppi di pazienti sia in stati acuti che in remissione per confermare i marker dei tratti. Inoltre, molti pazienti stavano assumendo farmaci al momento della scansione e la varietà di trattamenti impedisce di analizzare i loro potenziali effetti. Gli studi futuri, ove possibile, dovrebbero quindi concentrarsi su individui con diagnosi recente e che siano trattati in modo blando per poter escludere questi effetti.

Attualmente, il dott. Korgaonkar e il suo team stanno conducendo la seconda fase dello studio, che mira ad approfondire e definire ulteriormente questi marker coinvolgendo una più ampia coorte di pazienti.

 

Riferimenti:

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