Fobie e immaginazione: cosa ci dicono le neuroscienze

Fobie e immaginazione: cosa ci dicono le neuroscienze

Fobie

Photo by Josh Hild on Unspalsh

Alzi la mano chi non ha mai avuto almeno una fobia, seppur piccola, nella propria vita.

Sin dagli anni Cinquanta, la terapia espositiva – che permette di affrontare le proprie paure all’interno di un ambiente sicuro e controllato, solitamente prima tramite immaginazione e poi nella realtà – rappresenta il trattamento di prima scelta per questo tipo di disturbi. Ed effettivamente funziona.

Una nuova ricerca (2018) della University of Colorado at Boulder e della Icahn School of Medicine pubblicata sulla rivista Neuron ci spiega il perché, approfondendo i processi neurali attraverso cui l’immaginazione agisce sul comportamento.

Lo studio ha coinvolto 68 persone, che sono state sottoposte ad un “addestramento” di associazione di un suono minaccioso con una scossa elettrica (fastidiosa, ma assolutamente non dolorosa!). Sostanzialmente, veniva fatto ascoltare il suono al quale, subito dopo, seguiva una scossa.

Dopodiché, i partecipanti sono stati suddivisi in tre gruppi: al primo veniva fatto ascoltare nuovamente il suono minaccioso con cui erano stati addestrati, il secondo doveva “far suonare” quel suono nella propria testa ed il terzo doveva immaginare un piacevole suoni di uccelli e pioggia. Nessuno dei tre gruppi riceveva la scossa.

I ricercatori hanno quindi misurato l’attività cerebrale durante questi tre compiti utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Inoltre, dei sensori applicati sulla loro pelle misuravano il modo in cui il corpo rispondeva.

Nei primi due gruppi, l’attività cerebrale era simile: la corteccia uditiva (addetta all’elaborazione dei suoni), il nucleo accumbens (associato all’apprendimento della ricompensa) e la corteccia prefrontale ventromediale (associata al rischio e all’avversione) si attivavano allo stesso modo.

Dopo ripetute esposizioni al suono (reale o immaginato) senza ricevere la scossa, nei primi due gruppi si verificava il cosiddetto fenomeno dell’estinzione: lo stimolo che precedentemente induceva la risposta di paura non la induceva più. Praticamente il cervello aveva “dis-imparato” ad avere paura. Il gruppo che immaginava i suoni di uccelli e pioggia mostrava reazioni cerebrali diverse e la risposta di paura persisteva.

Spesso si pensa che il modo migliore per ridurre le emozioni negative sia pensare a qualcosa di positivo. In realtà, sembra essere esattamente l’opposto: immaginare la minaccia senza le conseguenze negative è il metodo più efficace, come afferma Tor Wager, direttore del Cognitive and Affective Neuroscience Laboratory di CU Boulder e co-autore dell’autore dello studio.

“Questa ricerca conferma che l’immaginazione può avere un impatto reale sul nostro cervello e sui nostri corpi con importanti ricadute per il nostro benessere”, ha affermato Wager.

“Questi nuovi risultati colmano un divario di vecchia data tra pratica clinica e neuroscienze cognitive”, ha detto l’autrice principale Marianne Cumella Reddan. “Questo è il primo studio di neuroscienze che dimostra come immaginare una minaccia possa effettivamente modificare il modo in cui essa è rappresentata nel nostro cervello”.

I risultati di questo recente studio potrebbe rivelarsi potenzialmente d’aiuto anche per il trattamento dei flashback del Disturbo da Stress Post-Traumatico; infatti l’immaginazione potrebbe essere uno strumento più potente di quanto si credesse in passato per “aggiornare” quei ricordi.

“Se hai un ricordo che non ti è più utile o ti sta paralizzando, puoi usare l’immaginazione per attingervi e modificarlo, aggiornando il tuo modo di pensare ad esso”, afferma la Reddan.

 

Riferimenti:

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