Gender Gap: disparità di genere nei luoghi di lavoro

Gender Gap: disparità di genere nei luoghi di lavoro

Gender Gap

Photo by CoWomen on Unspalsh

”La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”. E’ l’articolo 37 della Costituzione Italiana, la cui formulazione teorica dal punto di vista giuridico non risulta essere accompagnata a pieno da una sua applicazione pratica.

Difatti l’Italia, in evidente contraddizione con l’articolo 37 della sua Costituzione, si è classificata in 82° posizione su 144 Paesi presi in esame dal World Economic Forum nel “Global Gender Gap 2017” riguardo la parità di genere in ambito lavorativo. L’occupazione di tale posizione, nonostante abbia registrato un miglioramento rispetto agli anni passati, risulta indicativa della difficile situazione lavorativa a cui sono costrette a far fronte le donne nella cultura vigente in Italia. Nonostante il tasso di occupazione femminile sia aumentato, dal 2006 ad oggi del 17,3%, risulta ancora evidente la disparità di genere, in quanto, secondo le statistiche riportate sempre nel “Global Gender Gap 2017” il tasso di occupazione maschile è superiore circa del 20%.

L’indice di Gender gap è una misura composta dalle seguenti variabili:

  • la partecipazione all’attività economica, misurata dalla differenza tra il tasso di occupazione femminile e quello maschile, il differenziale nella remunerazione e il gap nelle opportunità di carriera;
  • l’accesso all’istruzione, che oltre ad esprimere il differenziale acceso ai diversi livelli di istruzione, fornisce una misura del tasso di alfabetizzazione femminile e maschile della popolazione;
  • la salute e la sopravvivenza, che fanno riferimento a loro volta a due diversi indicatori che sono la preferenza di un paese per figli maschi e il differenziale esistente nell’aspettativa di vita maschile e femminile;
  • la partecipazione politica che indica il numero di donne coinvolte nell’amministrazione politica dei governi centrali.

I dati in riferimento alla partecipazione femminile all’attività economica, sono il prodotto di tutta una serie di discriminazioni lavorative che la donna è costretta a vivere. Le differenze di trattamento in virtù del genere si palesano non solo nella fase iniziale, quella in cui dovrebbero operare criteri meritocratici circa l’inserimento lavorativo, ma anche durante la fase di permanenza lavorativa. Nello svolgimento stesso del loro lavoro le donne posso essere più facilmente vittime di disparità, abusi e violenze. Se poi ci soffermiamo sul divario retributivo di genere complessivo (salario annuale medio percepito da uomini e donne) scopriamo che in Italia è del 43,7% mentre nella UE è al 39,6%. È un divario sul quale incidono più fattori discriminanti: retribuzione oraria ridotta, che nel caso delle donne è tendenzialmente orientata verso il basso, minor numero di ore lavorate, segregazione in specifici settori lavorativi: la cosiddetta segregazione orizzontale (servizi alla persona, turismo e commercio a bassa retribuzione) e segregazione verticale (per cui le donne con maggiori difficoltà accedono alle posizioni apicali a vantaggio della componente maschile). Dato il minore accesso alle posizioni apicali, data la maggiore adesione femminile verso la modalità lavorativa del part-time e date le differenze nei redditi da lavoro e la discontinuità lavorativa in generale, le donne sono esposte a un maggior rischio di povertà durante tutto l’arco della vita e soprattutto nei delicati momenti di transizione (nascita dei figli, vedovanze, separazioni e divorzi). Tutti questi fattori inevitabilmente condizionano le donne nel programmare la nascita di un figlio dopo i 30 anni o nel non programmarla affatto, il che si ripercuote sul tasso delle nascite e quindi sulla ricchezza economica di un paese.

La situazione vigente in Italia è dettata, oltre che da stereotipi e pregiudizi, anche dalla mancanza di un sistema di welfare adeguato. Con l’adozione di ideali politiche di welfare, in grado di conciliare i tempi di vita con i tempi di lavoro, accompagnata da un ingente investimento nelle infrastrutture sociali, si avrebbe un impatto positivo sulla partecipazione delle donne alla vita economica.
Un sistema di welfare ottimale porterebbe non solo alla creazione di nuovi posti di lavoro, ma permetterebbe alle donne di essere libere di poter scegliere rispetto alla propria carriera lavorativa, senza essere costrette a sacrificarla in merito ai propri “doveri” familiari. Negli ultimi anni è emersa la necessità di valorizzare il genere femminile, al pari delle altre differenze che sono quelle etniche, ma anche quelle legate alla disabilità e all’età, come leva per risanare l’economia italiana. Innumerevoli sono le aziende che hanno interiorizzato tale concetto e che attuano all’interno del contesto lavorativo piani di diversity management, volti alla valorizzazione delle donne e delle loro competenze. Assicurare una maggiore integrazione alla componente femminile della forza lavoro consente di incrementare la produttività di un’impresa in virtù delle competenze complementari apportate, garantendo benefici significativi sulla crescita.

 

Riferimenti:

Autore/i dell’articolo

Dott.ssa Giulia Gabelli - Psicologa - Istituto Beck
Psicologa, Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale. Iscritta all’Ordine degli Psicologi della Regione Lazio dal 17/09/2012 n. 19457. Esperta in psicopatologia dell’apprendimento e delle dipendenze. Negli anni ha maturato una esperienza clinica sia in ambito pubblico che in strutture private. Attualmente svolge attività clinica con pazienti adulti occupandosi prevalentemente di disturbi d’ansia, disturbi depressivi e disturbi di personalità. Per l’età evolutiva il suo lavoro si concentra prevalentemente sugli aspetti di  valutazione, diagnosi e trattamento dei disturbi cognitivi, dei disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) e delle problematiche associate, quali difficoltà comportamentali, emotive e relazionali. Si è interessata a progetti di prevenzione di disagio durante l’infanzia e l’adolescenza sia a carattere regionale che per il Ministero della Pubblica Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR). E’ inoltre Terapeuta EMDR di primo livello.

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