La mostra “Com’eri vestita”: l’abbigliamento non causa lo stupro
“mi chiedo / quale risposta / quali dettagli / ti sarebbero di conforto / a voi che mi chiedete […] se solo fosse così semplice / se solo potessimo metter fine agli stupri / semplicemente cambiando vestiti.”
Questi sono alcuni versi della poesia “Cosa indossavo”, di Mary Simmerling, che hanno ispirato una mostra molto particolare, “Com’eri vestita”, organizzata dal Centro antiviolenza Cerchi d’Acqua presso la Casa dei Diritti di Milano. Questa mostra, a sua volta, è stata un’implementazione e adattamento italiano di una statunitense, “What were you wearing”, ideata nel 2013 dall’University of Arkansas, in particolare da Mary Wyandt-Hiebert, docente alla University of Arkansas, e da Jen Brockman, direttrice del Sexual Assault Prevention Center. Cerchi d’Acqua ha voluto prendere in prestito alcuni estratti dei racconti fatti dalle studentesse americane che avevano subìto violenza nei campus. Ma, volendo portare l’installazione un gradino più in là, hanno anche chiesto alle donne che frequentano i loro gruppi di auto aiuto se volevano portare la loro testimonianza.
«Un prendisole. Mesi dopo, mia madre di fronte al mio armadio si lamentava che non mettessi più nessuno dei miei vestiti. Avevo sei anni.»
Secondo i dati diffusi dal Viminale, in Italia abbiamo contato nel primo semestre dell’anno scorso 2.333 violenze sessuali, che raggiungono l’aberrante numero di 11 stupri al giorno. Nel nostro Paese il 13,6% delle volte l’aggressore è un partner o un ex partner, mentre una percentuale analoga degli stupri è compiuta da persone conosciute, quindi parenti, amici o colleghi di lavoro.
«Eravamo al mare, cercavo l’amore, il mio primo amore… ma tu mi hai giudicato per i miei vestiti e ti sei sentito autorizzato…»
Per le testimonianze statunitensi e quelle italiane avvenute diversi anni prima, si è scelto di individuare alcuni vestiti e abbinarli alle descrizioni delle donne. Negli altri casi, invece, sono state le donne stesse che hanno portato i vestiti che indossavano il giorno che hanno subìto violenza.
«Pensavo che indossare più strati di vestiti la notte potesse impedirgli di fare ciò che voleva.»
Camminando per la mostra, ci si fa chiara l’idea che, no, non importa cosa si indossi: può essere jeans e maglietta, pigiamoni, gonna al ginocchio, felpe, minigonne. Il comune denominatore degli episodi di violenza non è un solo capo da colpevolizzare. Quindi o si colpevolizzano le donne semplicemente per esistere o si volge lo sguardo verso il vero responsabile dell’abuso sessuale, ovvero l’aggressore. L’aggressore è il comune denominatore di ogni stupro, assieme all’idea che si sia in diritto di esercitare pressioni e molestie verbali o fisiche su un altro essere umano, fino ad arrivare all’odioso atto di costringere l’altro a subire un atto sessuale non voluto. Come ne sono lampanti e tristissimi testimoni i costumini da bambina presenti alla mostra.
«Ora posso fare il bagnetto?»
Un duplice intento in questa mostra portata in giro per l’Italia: sensibilizzare al grave problema della colpevolizzazione delle vittime e dare alle vittime stesse la possibilità di portare la loro testimonianza e liberarsi materialmente di un fardello pesantissimo da portare. Un fardello, quello della colpa presunta e dell’abuso subìto, che all’interno di una mostra possa contribuire al cambiamento culturale di cui abbiamo tutti bisogno.
Riferimenti: