“Meditazione” psicologica: funziona quanto quella “spirituale”?
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La psicologia di indirizzo cognitivo-comportamentale ha da tempo implementato, tra i suoi strumenti, l’impiego della mindfulness, specialmente nella forma cristallizzata da Jon Kabat-Zinn con il suo programma di 8 settimane “Mindfulness-Based Stress Reduction” o MBSR.
Questa pratica, come anche le tecniche immaginative o di “Imagery” (pensiamo all’Imagery Rescripting di Arnoud Arntz o all’uso dell’immaginazione nella Schema Therapy, una delle nuove branche della Terapia Cognitiva-Comportamentale), sono molto simili alle tecniche di meditazione Vipassana (per la Mindfulness) e di Visualizzazione Creativa (per le tecniche immaginative), derivando essenzialmente da un apporto delle tradizioni spirituali buddhiste e induiste (Sharf, 1995).
L’impiego di tecniche di derivazione orientale in un contesto occidentale ha causato molte controversie legate proprio al diverso approccio culturale alla pratica. Infatti in Oriente il praticante viene seguito da un maestro (il guru), e subisce un processo di iniziazione (la dīkṣā) dove gli viene trasmesso uno specifico mantra su cui dovrà meditare, o gli viene comunque assegnata una specifica pratica meditativa (sādhanā) che dovrà portare avanti.
Nonostante esistano testi di pratiche meditative, è ritenuto culturalmente che tali pratiche vadano “aggiustate” sulla persona, grazie a indicazioni del guru che solitamente non vengono trascritte.
Traslando queste preoccupazioni in un’ottica occidentale e soprattutto clinica, la vera domanda è: le tecniche insegnate in Occidente, che prescindono da una iniziazione orientale, che si basano su un’interpretazione della meditazione a partire da testi scritti della tradizione orientale e non da un passaggio iniziatico connesso a un lignaggio tradizionale, hanno lo stesso effetto psicofisico delle pratiche impiegate in un contesto autenticamente buddhista o induista?
Queste medesime domande sono state portate avanti da alcuni ricercatori, Rinske A. Gotink e colleghi, che in una revisione sistematica del 2016 hanno confrontato le scansioni cerebrali dei meditatori regolari di pratiche tradizionali (Zen, Vipassana, Tibetana, ecc.) con quelle di coloro che avevano partecipato ai percorsi di forme non-religiose di meditazione, come il programma di Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) o quello di Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT).
I risultati hanno mostrato che, a seguito del programma di meditazione non-religiosa, si riscontrava un aumento nell’attivazione, nella connettività e nel volume della corteccia prefrontale, della corteccia cingolata, dell’insula e dell’ippocampo dei partecipanti, assieme a una diminuzione nell’attività funzionale dell’amigdala, un aumento della connettività funzionale nella corteccia prefrontale e una più veloce disattivazione a seguito dell’esposizione a stimoli emotivi.
Questi cambiamenti funzionali e strutturali nella corteccia prefrontale, nella corteccia cingolata, nell’insula e nell’ippocampo erano simili ai cambiamenti descritti negli studi sulla pratica meditativa tradizionale in ambito religioso.
In sintesi, i risultati suggerivano che i training di mindfulness non-religiosi evocassero le medesime risposte cerebrali delle meditazioni tradizionali a lungo termine (Gotink et al, 2016).
È dunque possibile affermare che eventuali dettagli aggiunti alla pratica meditativa a seguito di iniziazioni o dovuti a particolari lignaggi spirituali, antichità o tradizionalità delle pratiche, non incidano in maniera significativa sul risultato della meditazione né sugli effetti psicofisici e cerebrali che essa ha sull’individuo, ma che rappresentino invece esclusivamente delle particolarità culturali.
È dunque necessario analizzare le tecniche meditative non sulla base di fattori culturali come l’antichità, la tradizione o il lignaggio, bensì sulla concordanza o discordanza delle aree cerebrali attivate dalle stesse.
Qualora si attivino le medesime aree cerebrali, l’impatto sull’individuo sarà il medesimo, altrimenti sarà diverso.
È pertanto indispensabile che gli psicologi e gli psicoterapeuti smettano di confrontare l’efficacia della pratica della mindfulness, e di altre tecniche meditative impiegate in ambito clinico, sulla base di presupposti anti-scientifici o tutt’al più culturali, e si concentrino invece sull’evidenza riportata dagli studi relativi all’attivazione cerebrale.
È addirittura possibile porre come obiettivo a lungo termine della ricerca in psicologia quello di de-misticizzare l’esperienza di Oneness (la percezione di unità con tutto ciò che ci circonda), che vari contesti religiosi hanno chiamato “Nirvana”, “Moksha” o “Illuminazione”, analizzando invece i cambiamenti neurobiologici degli individui durante e a seguito delle pratiche meditative e cosiddette “spirituali”.
Lo stato dell’arte nella ricerca ci fa capire come l’impiego della preghiera, della meditazione senza oggetti, della meditazione con oggetti (visualizzazione o meditazione guidata), dell’impiego dei tamburi e di altre forme di induzione della trance, del canto religioso e dei rituali devozionali sia altamente connesso a questa percezione di Oneness.
E’ dunque evidente che sia compito della nostra disciplina analizzare i risultati della ricerca per elaborare un programma che conduca l’individuo a sperimentare uno stato (quello di Oneness) che essenzialmente è mentale e dunque ambito della psicologia, in modo da poter equipaggiare coloro che vorranno sperimentarlo in maniera scientifica e razionale, lasciando alle tradizioni religiose l’interpretazione spirituale di esso.
Perché ciò avvenga è però necessario staccarsi da elementi religiosi o religiosizzanti come quello di “illuminazione”, poiché questi rappresentano una definizione culturale che chiunque, non avendo un background buddhista, induista od orientale, può invece classificare, chiamare e concettualizzare come meglio ritiene. L’individuo deve essere libero di sperimentare uno stato della sua mente accessibile tramite l’impiego di pratiche che agiscono sulla psiche (e quindi ambito della psicologia) senza doversi legare a elementi culturali, ad esempio senza avere l’obbligo a classificare questo stato mentale come lo scopo della propria vita, ma potendolo invece esperire come una delle molteplici modalità dell’essere vivi, e quindi senza doverlo classificare culturalmente come invece è oggi quasi obbligato a fare (Newberg, 2014).
Perché ciò avvenga è però necessario che la psicologia si riappropri di questo ambito, come è accaduto per la mindfulness, e inizi almeno a concettualizzare la possibilità di creare un programma atto a permettere agli individui di accedere allo stato di Oneness, che rappresenta un potenziale di esperienze mentali che sappiamo essere di grande beneficio nei confronti di chiunque lo sperimenti e potenzialmente terapeutico per individui che affrontano difficoltà emotive e cognitive, e forse anche per chi soffre di veri e propri disturbi mentali.
Bibliografia:
- Sharf, R. Buddhist modernism and the rhetoric of meditative experience. Numen, vol. 42, n. 3, 1995, pp. 228–283.
- Gotink RA, Meijboom R, Vernooij MW, Smits M, Hunink MG. 8-week Mindfulness Based Stress Reduction induces brain changes similar to traditional long-term meditation practice – A systematic review. Brain Cogn. 2016;108:32‐41.
- Andrew B. Newberg. The neuroscientific study of spiritual practices. Front Psychol. 2014; 5: 215.
Autore/i dell’articolo
- Dottore in Psicologia
- Redattore Volontario per la ONLUS Il Vaso di Pandora - La Speranza dopo il Trauma
- Content Creator per l'Istituto Beck