Come la mindfulness trasforma la sofferenza: la natura e l’origine del Dukka
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Avete mai sentito parlare di dukka? Probabilmente no. Sebbene non abbiate mai sentito questo termine, sicuramente ne avete fatto esperienza. Il termine dukka viene tradotto con sofferenza, e deriva dal Pali, un’antica lingua attraverso cui Buddha diede i suoi primi insegnamenti.
Dukka copre una vasta gamma di esperienze: dall’intensa angoscia che proviamo per un dolore fisico o emotivo, fino al più sottile disagio esistenziale.
Tutte le forme di dukkha condividono un senso di insoddisfazione, incompletezza, e il sentire che in qualche modo ci stiamo perdendo il pieno potenziale della vita. Dukkha è presente quando non possiamo godere di uno stato di pace, felicità, facilità o completezza: ricevere una diagnosi di cancro, rimanere imbottigliati nel traffico per alcune ore, dover vivere situazioni in cui subiamo continui maltrattamenti ma anche prendere un raffreddore.
Dukka è qualcosa che accomuna tutti noi in quanto esseri umani.
Kabat-zinn ideò il suo protocollo basato sulla mindfulness per la riduzione dello stress (MBSR) proprio per permettere ai pazienti dell’Umass di gestire la loro sofferenza. La mindfulness fa proprio questo: utilizza le potenzialità trasformative di un’antica disciplina come il buddhismo per trasformare il dukka presente nelle nostre vite.
Tutti i protocolli basati sulla mindfulness (MBSR, MBCT, MB-EAT etc.) rappresentano la possibilità per il partecipante di adottare una chiave di lettura alternativa per mettersi in relazioni con la propria personale catastrofe.
Se parteciperete ad un MBSR non sentirete mai parlare di dukka perché volutamente è un termine che durante il gruppo non si utilizza così come altri di derivazione buddhista. In relazione al corso che starete seguendo, sentirete parlare di stress, di gestione del cancro, di depressione, di sovra-alimentazione, di dipendenza, etc.
Per gli addetti ai lavori è diverso, chi conduce un gruppo basato sulla mindfulness deve necessariamente studiare parte delle mappe mentali che i preziosissimi testi buddhisti ci hanno lasciato ed in particolare quelli che descrivono l’origine e la natura della sofferenza.
John Teasdale (uno degli ideatori della terapia cognitiva basata sulla mindfulness- MBCT) sostiene che senza questo quadro di comprensione l’applicazione delle
pratiche di consapevolezza a problemi di stress, disturbi emotivi, depressione, disturbi dell’alimentazione e altro, si riduce all’insegnamento e all’apprendimento di una serie di tecniche per imparare a controllare l’attenzione e migliorare la capacità di concentrazione. Tuttavia, senza una comprensione esperenziale, da parte dell’istruttore, dell’origine e della natura della sofferenza e di come la consapevolezza sprigioni i suoi effetti nel ridurla, i protocolli mindfulness-based non avrebbero efficacia.
A questo proposito in uno storico articolo basato su un discorso che Teasdale tenne ad un ritiro per istruttori di MBSR e MBCT presso lo Spirit Rock Meditation Center in California nel dicembre 2009 vengono magistralmente presentati gli insegnamenti del Buddha sulla natura e le origini della sofferenza.
Il primo grande insegnamento che il Buddha diede dopo il suo risveglio consiste in quattro intuizioni chiave chiamate Quattro Nobili Verità. Le quattro Nobili Verità rappresentano mappe mentali per guidare l’azione, non sono assiomi di fede incrollabile, ma possibilità da esplorare, testare e verificare nella nostra esperienza. Attraverso le Quattro Nobili Verità potremmo trovare maggiore libertà, pace e felicità. Possiamo pensarle come verità nobilitanti perché nobiliteranno il nostro essere se agiamo in base ad esse.
Dukkha è il fulcro centrale delle Quattro Nobili Verità.
Le prime due Nobili Verità che esplorerò brevemente in questa news, riguardano la natura e l’origine del dukkha.
La prima nobile verità identifica il problema. Sumedho (1992) lo esprime molto semplicemente: “C’è dukkha”. Spesso quando abbiamo un problema ci identifichiamo con esso e lo personifichiamo.
Gli insegnamenti del Buddha superano la personalizzazione del dukkha. Non è colpa nostra ma della normale condizione umana. Dukkha è praticamente inevitabile e rispetta l’evoluzione della nostra coscienza. Quando ce ne rendiamo conto, può essere curiosamente confortante: non abbiamo bisogno di sentirci così soli. Siamo tutti nella stessa barca insieme, chiunque siamo – insegnanti, pazienti, partecipanti o la persona che incrociamo per strada. Tutti condividiamo due cose: dukkha e il semplice desiderio di essere felici. Sapere questo può aiutarci a sentire un maggior senso di connessione e compassione per tutti gli esseri umani.
Il Buddha ha distinto tre domini di dukkha.
Il primo dominio è l’insoddisfazione legata alle situazioni di sofferenza evidente: dolore fisico, dolore emotivo, dover sopportare situazioni che troviamo spiacevoli, non ottenere ciò che vogliamo o essere separati da ciò che amiamo. Queste sono tutte situazioni in cui proviamo sensazioni chiaramente spiacevoli. Il Buddha notò che quelle sensazioni spiacevoli di per sé non sono il problema. Piuttosto, dukkha è la sofferenza che aggiungiamo a questi sentimenti spiacevoli e che proviene dal modo in cui ci relazioniamo ad essi. Molto spesso, è questa sofferenza, piuttosto che i sentimenti spiacevoli la fonte principale della nostra infelicità.
Imparare come relazionarsi più abilmente a sentimenti spiacevoli in modo che non creino dukkha, è un focus centrale delle pratiche di consapevolezza che si insegnano nei gruppi mindfulness-based.
Il secondo dominio di dukkha è l’insoddisfazione legata al cambiamento. Vorremmo che le nostre esperienze di felicità e gioia continuassero indefinitamente, ma ciò non accade. Vorremmo che le nostre relazioni sentimentali fossero sempre al top come il giorno in cui ci siamo innamorati, ma inevitabilmente vanno incontro ad alti e bassi, e, accade anche che i nostri cari si ammalino o muoiano. Il cambiamento, di per sé, non è necessariamente un problema. Diventa un problema, quando non vogliamo che ciò accada.
Il terzo dominio di dukkha è l’insoddisfazione relativa alla condizionalità.
Il mondo e la nostra esperienza sono essenzialmente condizionati. Ciò significa che ciò che accade nelle nostre vite dipende da condizioni estremamente complesse e reciprocamente interagenti, molte delle quali non conosciamo e la maggior parte delle quali non possiamo controllare.
Questa condizionalità dell’esperienza, di per sé non è un problema. Diventa una fonte di sofferenza perché le nostre menti stabiliscono un senso di controllo e prevedibilità sul nostro mondo riducendone l’enorme complessità a categorie indipendenti, con caratteristiche e proprietà affidabili, durature, fisse per ottenere maggiore senso di sicurezza e gestibilità.
La prima nobile verità ci insegna ad aprirci alla sofferenza e al senso di insoddisfazione che sperimentiamo: avere il coraggio di avvicinarci a dukkha, lasciare che sia, mentre ne investighiamo la natura e comprendiamo come lo sosteniamo.
Avvicinarsi alla sofferenza per comprenderla pienamente è, ovviamente, molto diverso dalla nostra risposta abituale, che è voler eliminare la sofferenza il più presto possibile. Quindi, se vogliamo seguire la raccomandazione della Prima Nobile Verità possiamo ripristinare consapevolmente la nostra intenzione ad affrontare la sofferenza con una consapevolezza aperta, coraggiosa e curiosa.
L’intuizione chiave della Seconda Nobile Verità è che la causa di dukkha è tanha: una parola Pali tradotta solitamente come brama o attaccamento al desiderio. L’attaccamento al desiderio ha una qualità compulsiva: sentiamo che abbiamo bisogno che le cose siano in un certo modo.
Il messaggio chiave della Seconda Nobile Verità ci dice che l’esperienza stessa non è il problema – il problema è il nostro rapporto con esso – il nostro bisogno di desiderare che le cose siano in un modo particolare.
Quando ci confrontiamo con la realtà di un dolore lancinante ad un ginocchio per esempio è facile vedere l’esperienza spiacevole stessa come il problema. Quindi mettiamo tutti i nostri sforzi nel tentativo di sbarazzarci dello spiacevole, piuttosto che esplorare il nostro rapporto con esso. Dal punto di vista della Seconda Nobile Verità, è proprio questa reazione di aver bisogno di sbarazzarsi dello spiacevole che in realtà crea la sofferenza. Il problema centrale con tanha è che non possiamo lasciar andare, non possiamo lasciar andare il nostro bisogno che le cose siano in un modo particolare, anche se il bisogno è ciò che sta creando la nostra sofferenza.
La Seconda Nobile Verità identifica l’origine di dukkha come attaccamento al desiderio e abbastanza ragionevolmente ci dice che: “L’attaccamento al desiderio dovrebbe essere lasciato andare”. Sfortunatamente, questo è più facile a dirsi che a farsi.
Ma è a questo punto che la condizionalità dell’esperienza effettivamente viene in nostro soccorso.
L’intuizione del Buddha è semplice e abbastanza brillante perché se dukkha e il desiderio sorgono come risultato di un insieme di condizioni, cesseranno se quelle condizioni possono essere modificate e deliberatamente organizzate in un insieme diverso di condizioni. E questa è sicuramente una buona notizia per tutti noi!
Non esistono soluzioni magiche e rapide per eliminare o far scomparire la sofferenza il prima possibile. Le prime due Nobili Verità indicano una traccia che possiamo seguire per rapportarci in modo diverso con il nostro dolore. Abbiamo la possibilità di apprendere questo nuovo e funzionale atteggiamento mentale nei protocolli basati sulla mindfulness attraverso le pratiche di consapevolezza.
Per concludere con le parole di un grande insegnante thailandese Ajahn Chah:
Se tu lasci andare un pò, avrai un pò di pace.
Se lasci andare molto, avrai molta pace.
Se lasci andare completamente, avrai la pace completa
Riferimenti
John D. Teasdale & Michael Chaskalson (Kulananda), (2011). How does mindfulness transform suffering? I: the nature and origins of dukkha. Contemporary Buddhism.