Il ruolo della compassione nel trattamento del PTSD
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Il Disturbo da stress post-traumatico (PTSD) è una psicopatologia che può svilupparsi in persone che hanno subìto o hanno assistito a un evento traumatico, catastrofico o violento, oppure che sono venute a conoscenza di un’esperienza traumatica accaduta a una persona cara. La sintomatologia include la risperimentazione dell’evento (ad es. attraverso flashback o incubi), l’evitamento degli stimoli associati al trauma, i ricordi intrusivi dell’evento e l’iperarousal. Per quel che concerne gli approcci terapeutici, i due più efficaci e diffusi sono la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) e la Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i movimenti oculari (EMDR). Una componente essenziale della terapia cognitivo-comportamentale per il trauma è la Compassion Focused Therapy (CFT) sviluppata dallo psicologo britannico Paul Gilbert. Quest’ultima fa della compassione un atteggiamento mentale, una mentalità di base. La Compassion Focused Therapy (CFT) è stata specificamente ideata per sostenere persone affette da problemi mentali cronici e caratterizzate da alti livelli di vergogna e autocritica. Questi pazienti spesso provengono da contesti familiari difficili caratterizzati, ad esempio da trascuratezza, abusi, deprivazione emotiva, maltrattamenti (Gilbert, 2009; Gilbert, 2005).
La CFT cerca di facilitare il cambiamento attraverso lo sviluppo di una “mente compassionevole”. Questo approccio utilizza una definizione standard di compassione come sensibilità alla sofferenza di sé e degli altri, con l’impegno di cercare di alleviarla o prevenirla. Nello specifico, l’autocompassione è una modalità di affrontare le esperienze dolorose, le sensazioni spiacevoli e/o le memorie di traumi passati. Al posto di evitare le emozioni dolorose o provare a sopprimerle, l’autocompassione insegna ai pazienti ad affrontare ciò che li fa soffrire.
Gli studi
Diversi studi hanno evidenziato quanto l’autocompassione possa ricoprire un ruolo potenzialmente significativo nel trattamento del PTSD per diversi motivi:
- Lo sviluppo ed il mantenimento del PTSD sono fortemente influenzati dalla percezione della minaccia in corso (Ehlers & Clark, 2000): alti livelli di autocompassione sono associati a livelli più bassi di vergogna, che corrisponde ad una minaccia interna molto comune tra quelle successive all’esposizione al trauma. Le emozioni secondarie come la vergogna, l’autosvalutazione, l’autocritica ed il senso di colpa sono basate su valutazioni cognitive successive al trauma e spesso persistono dopo che la minaccia esterna è cessata: l’addestramento alla compassione riduce significativamente la vergogna e l’autocritica (Gilbert & Procter, 2006);
- L’autocompassione è anche associata a stili di coping adattivi che coinvolgono il confronto diretto con i problemi, la valutazione ragionevolmente realistica dei problemi, il riconoscimento e il cambiamento delle reazioni emotive malsane, e il tentativo di prevenire gli effetti negativi sul corpo. Una maggiore autocompassione è associata a un evitamento ridotto, a una minore soppressione dei pensieri indesiderati e a una minore ruminazione (Leary, Tate, Adams, Allen, & Hancock, 2007): in altre parole, l’autocompassione può aiutare il sopravvissuto a sperimentare i ricordi dell’evento da una prospettiva di auto distensione;
- L’autocompassione è associata a una migliore regolazione delle emozioni, e di conseguenza a una maggiore capacità di gestire il disagio. L’autocompassione può aiutare a bilanciare il sistema delle minacce iperattivo che è spesso il risultato di un trauma (Gilbert, 2014);
- Alti livelli di autocompassione sono associati al sentirsi maggiormente connessi agli altri: questo aspetto risulta fondamentale poiché il supporto sociale è costantemente identificato come un solido fattore di resilienza al trauma (Neff, Kirkpatrick, & Rude, 2007);
- Infine, i pazienti traumatizzati hanno bisogno di ricostruire un senso di sicurezza e di controllo sulle loro vite, praticare l’autocompassione migliorerebbe la loro capacità di valutare sé stessi, gli altri, il mondo e le loro esperienze di vita in modo più accurato e contestualizzato (Bensimon, 2017).
Conclusioni
In conclusione, promuovendo il desiderio di migliorarsi, attraverso un atteggiamento accogliente che incoraggi il cambiamento con amorevolezza, gentilezza e supporto, il paziente riuscirà a sopire le voci interiori di biasimo, contestazione e critica. Allontanandosi dall’abitudine all’analisi giudicante e alla vergogna, infatti, si può fare spazio a una freschezza nuova, capace di aprire la visione di un futuro più semplice, spontaneo, ricco di opportunità da coltivare e far sbocciare.
BIBLIOGRAFIA
- BENSIMON, M. (2017). Victimization in light of self-compassion: Development towards communal compassion. Aggression and Violent Behavior, 35, 44–51
- EHLERS, A., CLARK, D. M. (2000). A cognitive model of posttraumatic stress disorder. Behavior Research And Therapy, 38, 319–345.
- GILBERT, P. (2005). Compassion. Conceptualisations, research and use in psychotherapy. New York: Routledge.
- GILBERT, P., PROCTER, S. (2006). Compassionate mind training for people with high shame and self-criticism: Overview and pilot study of a group therapy approach. Clinical Psychology & Psychotherapy, 13(6), 353–379.
- GILBERT, P. (2009). The Compassionate Mind: Coping with the Challenges of Living. London: Constable Robinson.
- GILBERT, P. (2014). Compassion-focused therapy: Preface and introduction for special section. British Journal of Clinical Psychology, 53(1), 1–5.
- LEARY, M. R., TATE, E. B., ADAMS, C. E., ALLEN, A. B., HANCOCK, J. (2007). Self-compassion and reactions to unpleasant self-relevant events: The implications of treating oneself kindly. Journal of Personality and Social Psychology, 92(5), 887–904.
- NEFF, K. D., KIRKPATRICK, K. L., RUDE, S. S. (2007). Self-compassion and adaptive psychological functioning. Journal of Research in Personality, 41(1), 139–154.