Dicono di me che sono un mostro, come dargli torto: stigma sociale e processi di auto-attribuzione
Photo by sebastiaan stam on Unsplash
La personalità di un individuo è il risultato di fattori biologico/temperamentali e ambientali (Linehan, 2011). Il dialogo incessante tra nature e nurture è ormai un dato di fatto, anche se tendenze cartesiane continuano ad essere presenti nella mente, e purtroppo anche nella pratica clinica, di molti addetti ai lavori. Il patrimonio genetico modula la nostra suscettibilità agli stimoli ambientali, quanto il contesto di sviluppo, già da dentro l’utero materno, influenza la nostra espressione genica. La dialettica incessante tra queste due dimensioni gradualmente consolida memorie implicite ed esplicite, procedure e credenze, che nel tempo modellano l’individuo, dando una forma alla nostra esistenza. L’attribuzione soggettiva di significati all’esperienza, e il modo in cui ognuno di noi apprende a farvi fronte, conduce in maniera simile, ma molto diversa, a strutturare modalità relativamente stabili di dare senso al mondo. Ciò che ci fa paura, ci dà piacere, ci rende orgogliosi, ci lega o separa dall’altro, trae energia innata da sistemi motivazionali radicati nel nostro DNA (Liotti, Fassone, Monticelli, 2017) ma, con l’avanzare del tempo, diventa sempre più funzione del significato che noi diamo al mondo, agli altri, e a noi stessi. Soprattutto a noi stessi.
Chi pensiamo di essere rappresenta infatti un filtro incredibilmente potente nella valutazione degli eventi e nella definizione degli scopi personali. Tramite processi schema-dipendenti le nostre aspettative vengono continuamente confermate, nostro malgrado. Questo diventa ancora più evidente nella condizione psicopatologica dei disturbi di personalità, dove l’aderenza con rappresentazioni di sé negative e l’incapacità di differenziare il mondo mentale dal dato di realtà, diventano tanto pervasive da costituire un nocciolo indissolubile che condanna l’individuo a collezionare continue conferme della propria inadeguatezza, indegnità, dissolutezza, inferiorità (Dimaggio e Semerari, 2003).
Lo stigma può giocare un ruolo decisivo sulla considerazione che una persona ha di sé stessa. Quando parliamo di stigma, ci riferiamo ad un atteggiamento ostile nei confronti di caratteristiche percepite come negative (Goffman, 1963) che vengono attribuite a determinati individui, riconosciuti come diversi, sbagliati, appartenenti ad un gruppo potenzialmente pericoloso, con conseguenze sullo status e le opportunità sociali (Link e Phelan, 2001). L’incompetenza, la pericolosità e l’irresponsabilità sono tra gli stereotipi più comunemente applicati alle persone con malattie mentali (Corrigan e Kosyluk, 2014). La stigmatizzazione può diventare estremamente invalidante, a causa di processi di internalizzazione (Sheehan, Nieweglowski, Corrigan, 2016) che spingono la persona ad auto-attribuirsi caratteristiche negative percepite come stabili e immutabili, con effetti dirompenti sulla qualità della vita e il mantenimento della psicopatologia. Queste auto-attribuzioni negative solitamente germogliano in ambienti di sviluppo invalidanti, per poi venire ulteriormente rinforzate dalla cultura in cui siamo immersi, per mezzo dei messaggi impliciti ed espliciti che la società diffonde attraverso i media.
In un recente studio nel Regno Unito, Bowen (2019) ha voluto valutare il ruolo della stampa nei processi di stigmatizzazione delle persone con disturbi di personalità, attraverso un’analisi del linguaggio utilizzato negli articoli di stampa popolare. Attraverso la linguistica dei corpora, un metodo per l’indagine linguistica, è stato esaminato il 50% di tutte le pubblicazioni dal 2008 al 2017 che si riferivano ai disturbi di personalità, per un totale di 260 articoli. Dai risultati è emerso come le descrizioni utilizzate incoraggiassero un immaginario di violenza, attraverso il racconto e la descrizione di comportamenti violenti, di strumenti di violenza e etichette identitarie (assassino, mostro, psicopatico, bestia). Come sottolineato dall’autore dello studio, questo linguaggio “crudo incoraggia i lettori a costruire immagini vivide di violenza e potenti risposte emotive di orrore e disgusto, associate a persone con diagnosi di disturbo di personalità”.
Purtroppo queste storie, oltra a riempire i mass-media, fanno parte della collezione privata di ogni paziente, custodite gelosamente nella memoria a causa di processi cognitivi che mantengono in vita credenze e procedure altamente disfunzionali e dolorose. E sono proprio queste narrazioni a portare la persona in psicoterapia, raccontate dai pazienti come verità assolute su loro stessi, agite nella stanza di terapia obtorto collo, vissute nella relazione terapeutica come tsunami emotivi tanto necessari quanto di difficile gestione, con la possibilità, se non la certezza, che lo stigma possa sfiorare anche la mente del terapeuta, ed a volte purtroppo dominarla.
Riferimenti
- Bowen M. Stigma: A linguistic analysis of personality disorder in the UK popular press, 2008-2017. J Psychiatr Ment Health Nurs. 2019;26(7-8):244–253. doi:10.1111/jpm.12541
- Corrigan PW, Kosyluk KA. Mental illness stigma: types, constructs, and vehicles for change. In: Corrigan PW, editor. The stigma of disease and disability: understanding causes and overcoming injustices. Washington, DC: American Psychological Association; 2014.
- Dimaggio, G., & Semerari, A. (Eds.). (2003). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Stati mentali, metarappresentazione, cicli interpersonali. Roma Bari: Laterza.
- Goffman E. Stigma: notes on the management of spoiled identity. Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall; 1963
- Link BG, Phelan JC. Conceptualizing stigma. Annu Rev Sociol. 2001;27:363–85.
- Linhean, M. (2011). Trattamento cognitivo comportamentale del disturbo borderline. Raffaello Cortina Editore.
- Liotti, G., Fassone, G., Monticelli, F. (2017). L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali. Teoria, ricerca, clinica. Milano, Raffaello Cortina Editore.
- Sheehan L, Nieweglowski K, Corrigan P. The Stigma of Personality Disorders. Curr Psychiatry Rep. 2016;18(1):11. doi:10.1007/s11920-015-0654-1