Suicidio a maggioranza maschile: dovuto ai metodi o alle intenzioni suicidarie?
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58.000 persone si suicidano all’anno nella sola Europa, mentre i tentativi di suicidio si stima siano 20 volte questo numero. I maschi si suicidano in maniera sproporzionatamente alta: dalle 4 alle 5 volte più delle femmine. Al contrario, però, le femmine tentano il suicidio leggermente di più degli uomini. Questo fenomeno della differenza di genere tra suicidi e tentativi di suicidio è chiamato “paradosso di genere del comportamento suicidario”.
Molti studi hanno cercato di spiegare il divario di genere nel comportamento suicidario affrontando la mortalità, suggerendo che le femmine sopravvivono ai tentativi di suicidio più spesso dei maschi perché usano mezzi meno letali. Altri studi hanno però mostrato che gli esiti del comportamento suicidario femminile sono meno letali rispetto a quelli dei maschi anche quando viene usato lo stesso metodo.
Si è affermato che le donne tentano il suicidio più degli uomini perché sono maggiormente diagnosticate come affette da depressione. Tuttavia, ciò non spiega come mai gli uomini attuino suicidi completi più delle donne. Anzi, il dato suggerisce che il campione maschile possa essere sotto-diagnosticato, probabilmente per bias culturale o per mascheramento sociale che impedisce di riconoscere i sintomi della depressione quando tale malattia viene espressa da un uomo. È stato anche riscontrato che i fattori di rischio psicosociale come disoccupazione, pensionamento ed essere single sono tutti fattori di rischio significativi per il suicidio nei maschi, mentre non sono stati segnalati come fattori di rischio significativi nelle femmine.
Molto spesso, tuttavia, si afferma che gli uomini si suicidino di più delle donne solo a causa dei mezzi usati, e non per un reale intento suicidario maggiore.
Un gruppo di studiosi guidati dalla dottoressa Aislinné Freeman della Clinica e del Policlinico per la Psichiatria e la Psicoterapia dell’Università di Lipsia ha cercato di far luce su tutto ciò, andando a studiare l’intento suicidario, da loro definito come “il desiderio di un individuo di recarsi la morte”, definizione questa che esclude i motivi per tentare il suicidio senza reale desiderio di morire (Freeman et al., 2017).
Sebbene già altri studi abbiano dimostrato che il gap di genere nel suicidio sia dovuto a un maggior intento di morire nei maschi rispetto alle femmine, i ricercatori hanno provato ad analizzare la questione tramite uno studio improntato specificamente sull’intento suicidario. Hanno quindi raccolto gli intenti suicidari dai tentativi di suicidio acquisiti da un progetto europeo in 8 regioni in Germania, Ungheria, Irlanda e Portogallo, per un totale di 5212. Questi 5212 tentativi sono stati classificati per intento suicidario in “Autolesionismo Volontario Non-abituale” (DSH), “Pausa Parasuicidaria” (SP), “Gesto Parasuicidario” (SG) e “Tentativo Serio di Suicidio” (SSA).
È stata riscontrata un’associazione significativa tra intento suicidario e genere; infatti i Tentativi Seri di Suicidio sono stati molto più frequentemente riscontrati tra i maschi che tra le femmine.
Al fine di affrontare la questione se il metodo del tentativo di suicidio abbia un ruolo nell’associazione tra suicidio e genere, è stata eseguita un’analisi: anche tenendo in conto il metodo più usato dalle femmine all’interno dei tre metodi più frequentemente utilizzati per tentare il suicidio (overdose intenzionale di droghe o medicinali, auto-avvelenamento intenzionale con altri mezzi e impiccagione), di coloro che hanno scelto questo metodo (l’overdose intenzionale di droghe o medicinali), i maschi sono stati valutati come “Tentativi Seri di Suicidio” in maniera significativamente più frequente delle femmine, mentre queste ultime sono state classificate come “Autolesionismo Volontario Non-abituale” e “Gesto Parasuicidario” significativamente di più dei maschi.
I risultati hanno quindi supportato l’ipotesi che i maschi dimostrino una maggiore frequenza di “Tentativi Seri di Suicidio” indipendentemente dal metodo impiegato, anche all’interno dei metodi di tentato suicidio più usati dalle femmine. Lo studio ha quindi confermato che le femmine che tentano il suicidio abbiano un’intenzione seria di morire minore dei maschi.
Questa scoperta è in linea con un recente studio di oltre quattromila casi di autolesionismo, che ha riportato una significativa associazione tra punteggi di intenzione suicidaria più alta e genere maschile, autoavvelenamento, metodi multipli di autolesionismo, uso di gas, uso di alcol e metodi pericolosi di autolesionismo. Pertanto, si può dedurre che, indipendentemente dal metodo di autolesionismo, i tentativi di suicidio maschile tendono ad essere più gravi dei tentativi di suicidio femminile (Haw et al., 2015).
Quindi no, le differenze di genere nel suicidio non dipendono dal metodo impiegato per compiere il suicidio. Al contrario, i tentativi di suicidio femminile rappresentano in modo minore un’intenzione autentica a morire e più un desiderio di comunicare stress e disperazione per richiedere aiuto.
Essendo dunque tali tentativi maggiormente classificabili come Pause o Gesti Parasuicidari, sembra necessario creare interventi e strategie di prevenzione al suicidio che abbiano come target specifico gli uomini come popolazione più “a rischio”, al fine di ridurre questo gap di genere assieme al numero di suicidi in generale.
Come ridurre tale gap? Spesso la parola d’ordine in psicologia è convincere gli uomini che “possano piangere”. Il punto però è che spesso gli uomini si ritrovano a piangere a vuoto, non essendoci nessuno che li ascolti. Al posto di dare la colpa a loro perché non si aprono, forse dovremmo essere noi più attenti ad ascoltarli e ad aiutarli prima che arrivi il punto di non ritorno, ad esempio tramite campagne, servizi e centri gratuiti specificamente indirizzati verso gli uomini.
Inoltre sappiamo che il tasso di suicidi per motivi economici è ancora più a maggioranza maschile: quasi la totalità. È indubbiamente legato alla pressione esclusivamente maschile a mantenere, una pressione storica, che in passato era addirittura legge (vi era l’obbligo del marito a mantenere la moglie). Questo vuol dire che in caso di tracollo finanziario, la situazione, per un uomo, che ha la pressione sociale a mantenere sua moglie e i suoi figli, sarà un rischio suicidario maggiore che per una donna, che non ha tale pressione sociale.
Infatti ancora oggi i casalinghi uomini sono meno dell’1% rispetto alle casalinghe donne, per cui la possibilità che, in caso di crisi economica o licenziamento il marito possa farsi mantenere dalla moglie è improbabile e socialmente scoraggiata. Una donna povera può dunque ripiegare nell’essere casalinga, mentre un uomo povero rischia maggiormente di diventare senzatetto (a tal proposito, infatti, gli uomini sono la stragrande maggioranza anche dei senzatetto), di ridursi a fare lavori faticosi o rischiosi (a maggioranza maschile, esattamente come le morti sul lavoro connesse a tali scelte lavorative) o, appunto, di suicidarsi.
Per contrastare tutto ciò, ovvero maggioranza maschile nei suicidi per motivi economici ma anche nel numero di senzatetto e di morti sul lavoro, è necessario non solo aprire servizi specifici come per i suicidi maschili generici, ma anche sdoganare i casalinghi uomini.
Attualmente, infatti, le donne hanno tre possibilità: fare la casalinga e farsi mantenere dal marito, fare un lavoro part-time e farsi mantenere in parte dal marito, e lavorare. Gli uomini, al contrario, hanno: lavorare senza mantenere nessuno a parte sé stessi, lavorare e mantenere la propria moglie in parte, e lavorare e mantenere la propria moglie interamente.
È dunque necessario costruire interventi e campagne di sensibilizzazione che abbiano come target gli uomini, in modo da permettere loro di diventare casalinghi tanto spesso quanto le donne, e di conseguenza di poter farsi mantenere dalle proprie compagne tanto spesso quanto il contrario in caso di perdita di lavoro, in modo che il suicidio non sia più la loro unica soluzione.
Bibliografia:
Freeman A, Mergl R, Kohls E, Székely A, Gusmao R, Arensman E, Koburger N, Hegerl U, Rummel-Kluge C. A cross-national study on gender differences in suicide intent. BMC Psychiatry. 2017 Jun 29;17(1):234.
Haw C, Casey D, Holmes J, Hawton K. Suicidal Intent and Method of Self-Harm: A Large-scale Study of Self-Harm Patients Presenting to a General Hospital. Suicide Life Threat Behav. 2015 Dec;45(6):732-46.
Autore/i dell’articolo
- Dottore in Psicologia
- Redattore Volontario per la ONLUS Il Vaso di Pandora - La Speranza dopo il Trauma
- Content Creator per l'Istituto Beck