Conoscere la Mindfulness

Conoscere la Mindfulness

Che cosa è la mindfulness

“Mindfulness significa prestare attenzione in un modo particolare: con intenzionalità, al momento presente e senza giudizio”
Jon Kabat-Zinn

Il termine inglese mindfulness indica letteralmente uno stato di piena attenzione, che trova la sua traduzione migliore in italiano nel termine consapevolezza. Con mindfulness ci si riferisce sia all’azione di sedere in meditazione, sia alla condizione di presenza vigile e rilassata che si coltiva attraverso quell’azione.

Grazie al processo di meditare si alimenta una forma di conoscenza della realtà generata dalla sua percezione lucida, fresca, emancipata da qualsiasi forma di preconcetto e – in ultima istanza – amorevole.  Questo tipo di osservazione permette di rimanere ancorati al momento presente e di viverlo pienamente. Consente, inoltre, di notare l’intreccio costante di sensazioni fisiche, processi emotivi, pensieri che punteggiano continuamente il nostro presente, il più delle volte senza che ce ne rendiamo conto. Eppure questo scorrere incessante di eventi corporei e mentali rappresenta lo sfondo del nostro esistere e ha il potere di determinare il modo in cui percepiamo noi stessi e il mondo fuori di noi istante per istante. Riportando continuamente l’attenzione a ciò che semplicemente è, la mindfulness dà modo di osservare i nostri modi – talvolta distorti – di interpretare situazioni stimolo o i nostri automatismi in azione, e quindi di affrancarcene. In ultima istanza, la mindfulness fa sì che riguadagniamo un senso di libertà e controllo sulla nostra vita.

Che cosa significa praticare la mindfulness

“Il cuore vivo della pratica meditativa deve scaturire dall’esperienza personale
Henepola Gunaratana

La mindfulness ha la potenzialità di diventare un modo di essere e di entrare in relazione con la realtà, che va ben oltre il nostro cuscino da meditazione. Ma perché ciò accada, è necessaria la nostra immersione diretta nell’esperienza. L’atteggiamento risvegliato che è proprio della consapevolezza va sperimentato in prima persona e alimentato dentro le nostre sessioni di meditazione, per poi essere portato fuori, nella vita. Non è un concetto teorico e non può essere appreso soltanto sui libri.

Esistono modi diversi di praticare. Il più classico – e forse il più presente nell’immaginario collettivo – è la meditazione seduta. Ci si siede in una posizione eretta, vigile e rilassata al tempo stesso, e si comincia con l’osservare – semplicemente – il proprio respiro. Ci si apre poi progressivamente a notare qualunque cosa emerga nel campo della propria esperienza: sensazioni fisiche, emozioni e pensieri. Da sottolineare che questa azione, nella sua radicale essenzialità, è tutt’altro che facile. Basta una manciata di secondi, infatti, per rendersi conto che la mente non allenata alla consapevolezza tende a girovagare, a saltare da un pensiero all’altro, da un’immagine all’altra, se non a provare fastidio o irritazione. Cosa fare allora? Quando ci si accorge che la nostra attenzione si è spostata dalla contemplazione del respiro dentro un ricordo, una sensazione fisica, un progetto, quel litigio avuto con nostro figlio…  ebbene, questo piccolo risveglio è già un momento di mindfulness in sé. Si ritorna allora pazientemente alla percezione attiva dell’aria che entra e esce dal naso. Questo movimento circolare respiro/corpo – pensiero – respiro/corpo è il fulcro della mindfulness.

Esiste poi la meditazione camminata, in cui l’attenzione è orientata a osservare tutte le micro-azioni che avvengono quando compiamo un passo e – un passo dopo l’altro – ci muoviamo nello spazio.

Vi è, infine, la possibilità di trasferire lo stato di presenza che alleniamo con le nostre sessioni di mindfulness formale – seduta o camminata che sia – nei più piccoli gesti del quotidiano: fare la doccia, spalmare una crema sul corpo, parlare con il nostro partner. Questo tipo di pratica, che è una vera e propria meditazione in azione – si definisce informale. Da citare, infine, tutte quelle discipline che implicano il radicamento nella contemplazione del respiro e del corpo in movimento e che rappresentano, quindi, anch’esse una strada per coltivare la consapevolezza: lo yoga, il qi gong, il tai chi chuan, ecc.

 

Come imparare a praticare la mindfulness

Il monaco tibetano Chogyam Trungpa soleva dire che la nostra pratica inizia quando ci incamminiamo lungo il sentiero stretto della semplicità. Ma questo sentiero stretto della semplicità, questo minimalismo non è congeniale alla nostra cultura. Anche quando ci si avvicini alla consapevolezza animati dalle migliori intenzioni, può accadere che l’asciutta schiettezza del sedersi e osservare possa apparire insignificante ad alcuni, soprattutto all’inizio.

Per non abbandonare prima di poterne sperimentare i benefici, è importante, quindi, tenere a mente che l’accostamento alla pratica è un vero e proprio training dello spirito. Richiede la stessa dedizione, costanza e gradualità che si ha verso una qualunque forma di allenamento.

È inoltre fondamentale poter fare affidamento su delle risorse in grado di sostenere questo viaggio dell’anima, risorse che devono essere congeniali al nostro modo di essere e alle necessità della nostra vita.

La lettura di buoni libri può illuminare il nostro cammino e rappresentare un validissimo supporto, come pure la frequenza a un gruppo settimanale o mensile di pratica o a dei ritiri di meditazione. Infine, la partecipazione a un corso Mindfulness-Based Stress Reduction  di 8 settimane, realizzato da facilitatori esperti, può essere la risposta migliore per chi senta il bisogno di essere preso per mano e introdotto alla meditazione nei suoi vari formati (seduta, camminata, informale, yoga) in un arco di tempo relativamente limitato. Al termine del programma si posseggono, infatti, tutti gli strumenti per scegliere il tipo di pratica meditativa che si sente più consona a sé e per dedicarsi a essa in autonomia.

La mindfulness non è

Soprattutto in ragione della sua enorme popolarità, la mindfulness corre il rischio di essere erroneamente considerata come la panacea di tutti i mali. L’avvicinamento alla pratica è spesso caricato di aspettative irrealistiche. Allo stesso modo, falsi preconcetti – ad esempio che essa sia una religione – rischiano di tenere lontane persone che potrebbero giovarsene. È importante, quindi, chiarire anche tutto ciò che la mindfulness non è:

  • Non è una filosofia o una religione. Per accedere alla meditazione non è necessaria l’adesione a una specifica dottrina. La mindfulness è una possibilità per tutti, indipendentemente da status, età, professione, etnia, credo, sesso, orientamento sessuale, identità di genere, ecc.
  • Non è una tecnica di rilassamento.
  • Non è una fuga dalla realtà. Al contrario, è una immersione nella realtà, è la pratica della sua accettazione, perché ci incoraggia a vedere e ad accogliere noi stessi esattamente così come siamo e le cose così come sono.
  • Non è pericolosa per il corpo. Si può meditare anche se si hanno problemi fisici, basta trovare la posizione giusta.
  • Non è pericolosa per la propria condizione psicologica. Esistono tuttavia alcune specifiche circostanze – esordi psicotici, deliri, stress post traumatico in fase attiva – che richiedono degli interventi preliminari di stabilizzazione prima che si possano introdurre con accortezza e professionalità le prime sessioni di mindfulness. Se riconoscete di trovarvi in una di queste condizioni, piuttosto che fare da soli, rivolgetevi a uno psicologo o psicoterapeuta esperto in mindfulness per essere presi per mano e guidati nell’avvicinamento alla pratica.
  • Non è una medicina dagli effetti immediati e miracolosi contro il dolore e la sofferenza.

Perché praticare la mindfulness aiuta a star meglio

Oggi la neurobiologia ci dice che la nostra mente può essere pensata come un monitor, su cui i segnali derivanti da un intensissimo e bidirezionale processo di comunicazione tra cervello e corpo producono un incessante flusso di pensieri. Questi ultimi – che si presentano per lo più come una concatenazione di parole e immagini – prendono la forma di idee, giudizi, desideri, pianificazioni, preoccupazioni, aspettative. La mente non sta mai zitta, ed è proprio al suo chiacchiericcio che va in gran parte attribuita la responsabilità del nostro malessere. Guardiamo ai nostri pensieri come a delle incrollabili verità, piuttosto che considerarli eventi mutevoli e transitori. Siamo, inoltre, spesso assenti – nel senso di non presenti a noi stessi – strattonati fra un passato che non c’è più e un futuro che ancora deve arrivare, incapaci di cogliere ciò che si manifesta davanti ai nostri occhi – proprio qui, proprio ora – e di assaporarne il succo.

La pratica della mindfulness aiuta a star meglio perché:

  • Allena la mente a prestare attenzione al momento presente e focalizzarsi su specifici aspetti dell’esperienza
  • Riporta la mente nel corpo, migliora la nostra capacità di fare contatto con la nostra dimensione corporea
  • Accresce la nostra abilità di sentire, nominare e tollerare le nostre emozioni, anche quelle negative, senza esserne risucchiati
  • Abitua a osservare i pensieri come prodotti della mente – come nuvole che appaiono, transitano e scompaiono nel cielo – piuttosto che come incrollabili realtà e a dis-identificarci da essi
  • Insegna a rallentare, a fare spazio, a scegliere come rispondere alle varie situazioni piuttosto che reagire automaticamente
  • Allena a guardare alla nostra realtà interna con pazienza e senza giudizio
  • Apre la strada a una forma di gentilezza verso il proprio cuore, il cuore dell’altro e il cuore che palpita in ogni manifestazione dell’esistere

Da dove arriva la mindfulness: una parola moderna per una storia millenaria

La mindfulness affonda le sue radici nella più antica scuola di buddhismo ancora oggi esistente, il buddhismo theravada (IV sec. A.C.). Questa dottrina contempla due tipi di pratiche meditative: la meditazione samatha e la meditazione vipassana. La prima mira a quietare la mente e a liberarla dal suo continuo vociare attraverso la focalizzazione protratta dell’attenzione su un singolo oggetto di osservazione, in primo luogo il respiro. La seconda ambisce a penetrare il muro dell’ignoranza e comprendere la natura profonda dell’esperienza attraverso la lucida osservazione dell’impatto che gli stimoli – sensoriali, corporei, emotivi, e cognitivi – hanno su di essa. È proprio dalla meditazione vipassana, di cui rappresenta una variante moderna e laica, che la mindfulness prende origine. Il termine fu coniato per la prima volta da Thomas William Rhys Davids (1843-1922) che così rese in inglese, all’interno del suo lavoro di traduzione del Satipatthana Sutta, la parola pali sati. Nel famosissimo Canone, che rappresenta il fondamento del buddhismo, sati – che in prima istanza significa ricordare – indica uno stato di vigilanza della mente che deve essere coltivato costantemente come fondamento della comprensione e della visione profonda e penetrativa. Sati è quindi l’abilità di mantenersi risvegliati di fronte al dispiegarsi della realtà, guardando le cose che appaiono qui e ora con nitidezza e senza giudizio. Sati è, in ultima istanza, un’assunzione di responsabilità, è l’inizio di un cammino che attraverso la conoscenza conduce all’azione retta e, infine, alla liberazione.

Nonostante la meditazione sia una pratica diffusa nel mondo orientale da lunghissimo tempo, essa inizia a entrare in occidente soltanto a metà del XIX secolo. Il suo arrivo si deve ai movimenti migratori di persone – tra cui monaci e maestri – che, a partire dal 1850 si spostano dall’Est verso gli Stati Uniti e l’Europa, portando con sé un ricchissimo bagaglio di cultura e spiritualità.

Negli anni 60 e 70 tanti esponenti appartenenti al movimento hippy, affascinati dalla diversità e aperti alla sperimentazione, cominciano ad avvicinarsi con curiosità alla tradizione meditativa. Giovani intraprendenti e curiosi, inoltre, con lo scopo di apprendere i fondamenti della pratica, compiono viaggi di formazione in Oriente e, una volta tornati a casa, diffondono gli insegnamenti ricevuti dalle loro guide spirituali, talvolta aprendo i propri centri di meditazione. A livello di cultura dominante, però, l’Occidente, tende a dare valore a ciò che può essere scientificamente provato. Si dovrà quindi aspettare la fine degli anni ’70 perché anche gli ambienti accademici si ritrovino ad essere investiti da un’ondata di crescente curiosità per la meditazione di consapevolezza. È a quel punto, infatti, che Jon Kabat-Zinn, biologo molecolare statunitense e professore emerito di medicina, rifinisce nel Medical Center dell’università del Massachusetts una versione non religiosa della meditazione e la organizza in un preciso programma per la riduzione dello stress: il Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR). Da allora a oggi, nell’arco di quarant’anni di esperienza, il protocollo MBSR è stato utilizzato in più di 25.000 casi. Il suo ambito di applicazione spazia dai disturbi universalmente riconosciuti come psicosomatici, al disagio mentale, sino alla gestione e al trattamento di malattie quali il cancro, l’ipertensione o l’Aids. Soprattutto, l’efficacia dell’MBSR è stata empiricamente validata sulla base di una estensiva mole di dati prodotta attraverso una serie di trials clinici. Questi risultati hanno stimolato un accesissimo movimento di interesse da parte della comunità scientifica rispetto ai benefici delle pratiche meditative in genere e ai loro potenziali effetti positivi nei più svariati domini. La misura di questa attenzione può leggersi in un numero: 23.184. Tanti sono gli articoli che compaiono in elenco su PubMed – uno dei più prestigiosi e vasti motori di ricerca nel campo della letteratura biomedica – alla digitazione della parola “mindfulness” (giugno 2022). Si tratta di una cifra esorbitante!

Mindfulness e età evolutiva

Diventare grandi è un lavoro tutt’altro che semplice. Giovani e giovanissimi sono chiamati a superare di continuo compiti evolutivi – separarsi da mamma e papà, sviluppare relazioni, frequentare la scuola, esercitare la propria autonomia – che li obbligano a rimodulare ciò che già sono e quel che già sanno fare alla luce di nuove sfide. A questo naturale mestiere di crescere, che per alcuni ragazzi è un viaggio più accidentato che per altri, possono aggiungersi fattori di stress procurati da situazioni esterne (lutti, separazioni, conflittualità in famiglia, ecc.) o dallo stile di vita imposto ai figli dalle scelte – spesso tutt’altro che mindful – dei genitori. Bambini e ragazzi, che come gli adulti amano e soffrono, esattamente come loro si ammalano di tristezza, irrequietezza e isolamento, senza riuscire il più delle volte a dare parole a questo disagio.

Le statistiche non sono rassicuranti in questo senso. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità il 2% dei bambini in età scolare mostra evidenti sintomi di depressione, un disturbo che rappresenta la quinta concausa di malattia tra i ragazzi al di sotto dei 14 anni (Cioffi, Guicciardi, Pastore, & Vidotto, 2010). I nostri figli, inoltre, ricevono sempre più spesso diagnosi di ansia cronica, disturbi alimentari, disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività.  Tra i 7 e i 12 anni – come dimostra un’indagine realizzata dall’Eurispes in collaborazione con il telefono Azzurro (2012) – il fenomeno della dipendenza da social media, navigazione in rete e videogiochi è in allarmante crescita. Secondo Common Sense Media[1], gli adolescenti americani passano circa nove ore al giorno (Common Sense Media, 2018) su internet. La ricerca sta tentando di comprendere la relazione esistente fra il tempo trascorso sulla rete e l’incremento del disagio psicologico tra gli adolescenti e i giovani adulti. L’opinione degli studiosi (Twenge et al., 2019) è che l’emergere di nuovi comportamenti in termini di socializzazione e comunicazione – ad esempio l’utilizzo dei dispositivi elettronici e delle numerose piattaforme digitali esistenti, oppure la generale diminuzione delle ore di sonno – possa star giocando un ruolo estremamente significativo su questo preoccupante fenomeno.

In questo particolare momento, poi, il COVID- 19 e le misure attuate per contenere l’emergenza pandemica – lockdown, sospensione della attività scolastica, didattica a distanza– hanno colpito bambini e adolescenti, privandoli di quell’essenziale ossigeno per la loro mente e per la loro anima che l’incontro con i coetanei. Le conseguenze nel lungo termine sul benessere fisico e psicologico dei ragazzi di questo fenomeno non sono ancora esattamente misurabili o prevedibili. Ma i risultati di una ricerca del 2022 coordinata dall’Autorità garante per l’Infanzia e l’adolescenza chiarisce come la questione della tutela della salute mentale dei minori di età sia prepotentemente emersa come un’urgenza immediata e come i problemi connessi al neurosviluppo e alla salute mentale, che hanno ricevuto insufficienti risposte, rischino di subire un processo di cronicizzazione di disagio mentale su vastissima scala.

Da una decina di anni a questa parte hanno cominciato a prendere piede, soprattutto all’estero (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Israele), diversi programmi per introdurre la mindfulness tra i più piccoli. Tra questi, alcuni esempi sono: MindUP (SUllamente), A Still Quiet Place (Un posto calmo e tranquillo), Learning to Breathe (Imparare a respirare), Mindful Schools (Scuole consapevoli), Inner Kids (Bambini interiori). MindUP, in particolare, è un protocollo che ha come obiettivo il potenziamento di competenze socio-emotive creato nel 2003 dalla organizzazione non profit Goldie Hawn Foundation. Consiste in dodici lezioni della durata di 40/50 minuti rivolte ai ragazzi della scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado. Le attività prevedono: la concentrazione sul proprio respiro, l’ascolto di suoni, l’osservazione della propria esperienza sensoriale (udito, vista, olfatto, gusto), il movimento consapevole e la pratica formale della meditazione. Il currciulum contempla anche l’esecuzione di atti di gentilezza verso gli altri e la comunità in cui si è inseriti. Gli insegnanti, cioè, incoraggiano attivamente gli allievi ad utilizzare le competenze apprese per favorire un clima sereno e cooperativo in classe.

Gli studi sull’efficacia di questi interventi ribadiscono gli effetti positivi della meditazione di consapevolezza anche tra i ragazzi, essendo in grado di migliorare tanto la dimensiona emotiva, quanto quella sociale e cognitiva della loro vita. La mindfulness, inoltre, sembra giocare un ruolo importante nel trattamento di problemi di salute mentale anche tra i più giovani.

Nel nostro paese, Antonella Montano e Silvia Villani hanno elaborato un protocollo di mindfulness per gruppi di bambini dai 6 ai 12 anni dal titolo Il fiore dentro (Montano & Villani, 2016). Il programma, concepito in primo luogo per essere realizzato in gruppo a scuola dagli insegnanti di classe, può essere proposto a casa anche dai genitori. Si snoda lungo l’arco di otto settimane e ha trovato la sua formalizzazione in un libro teorico/pratico che guida il conduttore lungo tutto il suo processo di realizzazione. Le ideatrici scelgono poeticamente l’immagine del fiore, ispirate da una splendida metafora di Thich Nahth Hanh (1992), per il quale “ognuno di noi è un fiore. Qualche volta siamo un po’ appassiti e abbiamo bisogno di riacquistare vigore. Noi fiori umani abbiamo bisogno di aria”. L’aria cui si riferisce Thich Nahth Hanh è l’osservazione del respiro nella meditazione. Il fiore dunque, più che un titolo, è un tema, un filo conduttore che connette le attività previste di settimana in settimana. Gli incontri sono pensati per avere durata variabile dai di 45 ai 60 minuti e prevedono sempre: 3 momenti di pratica formale (in apertura, a metà e in chiusura); spazi di psicoeducazione e condivisione di esperienze; letture di favole o filastrocche; assegnazione di compiti, che vengono poi commentati di settimana in settimana.

Ovviamente, perché il programma prenda il volo e diventi un’esperienza di senso per i bambini, è necessario che il docente/conduttore sia coinvolto in prima persona e creda nelle sue potenzialità. È inoltre essenziale che l’insegnante, attraverso il proprio esempio e il tipo di interazione che instaura con i ragazzi, fornisca un modello persuasivo di quell’atteggiamento consapevole, non giudicante e amorevole che si allena attraverso la pratica.

[1] Common Sense Media  è una organizzazione non profit americana la cui finalità è quella di aiutare i bambini e le loro famiglie a sviluppare un rapporto equilibrato con i mass media e la tecnologia.

Mindfulness e ricerca

La letteratura scientifica sull’applicazione del protocollo MSBR e, più in generale, sugli effetti dell’esperienza meditativa è davvero molto estesa. La raccolta bibliografica che presentiamo di seguito ha il solo scopo di rendere l’idea del movimento di interesse che ruota attorno alla meditazione di consapevolezza e non può, pertanto, considerarsi in nessun modo esaustiva.

Mindfulness e malattia

  • La mindfulness si dimostra efficace nel migliorare le strategie di gestione del disagio in pazienti affetti da dolore cronico (Kabat-Zinn, 1982; Kabat-Zinn, Lipworth, & Burney, 1985; Kabat-Zinn, Lipworth, Burney, & Sellers, 1987; Four-Reiner, et al., 2013; Rosenzweig, et al., 2010; Veehof et al., 2016);
  • alleviare le sofferenze di tipo fisico e psicologico in individui con patologie cardiovascolari (Sullivan, et. al., 2009);
  • gestire la difficile esperienza di un trapianto di organo (Gross, et al., 2004) o di traumi cerebrali (Bédard, Felteau, Gibbons, 2005);
  • migliorare la qualità della vita di persone affette da tumore (Andersen, et al., 2013; Carlson, Doll, Stephen, et al., 2013; Carlson, Garland, 2005; Carlson, Speca, Faris, et al., 2007; Carlson, Speca, Patel, et al., 2003; Carlson, Ursuliak, Goodey, et al., 2001; Garland, Tamagawa et al., 2013; Kabat-Zinn, 1998; Lengacher et al. 2012; Matchim, et al., 2011; Matousek, et al., 2011; Ott et al., 2006).  La pratica meditativa sembra inoltre avere un effetto protettivo: sul sistema immunitario (Davidson & Kabat-Zinn, 2003);
  • rispetto al possibile insorgere di ipertensione (Hughes, et al., 2013) e di malattie legate all’invecchiamento (Chaix, et al., 2017).

Diversi studi ne rivelano un impatto positivo nel:

  • trattamento dei disturbi del sonno (Bootzin & Stevens, 2005; Gallegos, Moynihan, Pigeon, 2018; Heidenreich et al., 2006; Ong & Moore, 2020; Shapiro, et al., 2003; Winbush, Gross, & Kreitzer, 2007);
  • di patologie dermatologiche (Kabat-Zinn, Wheeler, Light, Skillings, Scharf, Cropey, Hosmer, & Barnhard, 2003).

Un ulteriore filone di ricerca, infine, ne dimostra l’efficacia come fattore di rinforzo della terapia antivirale in pazienti affetti da HIV (Creswell, et al. 2009; Duncan, et al., 2012).

Mindfulness e salute mentale

Quanto ai benefici relativi alla salute mentale è stato verificato un effetto di contenimento dei sintomi di:

  • ansia nella popolazione durante il periodo di lockdown per il COVID-19 (Behan, 2020);
  • ansia e attacchi di panico (Brantley, 2005; Grossman, et al., 2003; Hofmann & Gomez, 2017; Hoge, Bui, Marques, et. al., 2013; Kabat-Zinn, Massion, Kristeller, et al., 1992; Khusid & Vythilingam, 2016);
  • disturbi digestivi connessi allo stress (Kabat-Zinn, 2003; Zernicke, Campbell, Blustein, et al., 2013);
  • disturbi dell’alimentazione (Kristeller & Hallett, 1999);
  • stress post-traumatico (Kelly & Garland, 2016; Ortiz & Sibinga, 2017; Stephenson, Simpson, Martinez, et al., 2017);
  • ansia e depressione (McQuaid & Carmona, 2004; Orsillo & Roemer, 2006; Sizoo & Kuiper, 2017);
  • disturbo bipolare (Chu, et al., 2018);
  • disturbi da addiction (Breslin, Zack, & McMain, 2002).

In generale la mindfulness si dimostra in grado di produrre cambiamenti positivi (Carmody, et al., 2009), di migliorare la qualità della vita (Reibel, Greeson, Brainard, & Rosenzweig, 2001) e di favorire funzioni quali la flessibilità cognitiva, la regolazione dell’attenzione, la memoria, percezione corporea, la modulazione delle emozioni e uno stile di pensiero flessibile (Brown & Ryan, 2003; Jha et al., 2010; Hölzel, Lazar, Gard, et al., 2011; Siegel, 2007). E la ricerca conferma. Indagini ad ampio spettro (

Mindfulness e neuroscienze

Recentemente la meditazione è stata al centro dell’attenzione anche delle neuroscienze. Gli studiosi del sistema nervoso umano hanno realizzato una serie avvincente di progetti di ricerca avvalendosi della tecnica del neuro-imaging. In questi studi che in italiano si definiscono di immagine, strumenti radiologici – quali la risonanza magnetica semplice e funzionale o la TAC – vengono utilizzati per verificare il tipo di attivazione cerebrale prodotta dalla mindfulness e l’eventuale impatto della pratica in meditatori di medio e lungo corso sulla morfologia di alcune zone del loro cervello.

Il primo studio completo in merito è stato condotto presso il Massachusets General Hospital, (Hölzel, Carmody, Vangel, et al., 2011). L’indagine attraverso l’uso delle immagini evidenzia un ispessimento della materia grigia a livello dell’ippocampo, nella corteccia cingolata posteriore e un assottigliamento dell’amigdala in soggetti sottoposti al protocollo MSBR. Un ingegnoso  disegno di ricerca del 2011 (Taylor, et al., 2011) mostra come in meditatori di lungo corso l’esposizione a stimoli potenzialmente ansiogeni effettuata per mezzo di foto violente corrisponda alla non attivazione dei network cerebrali solitamente coinvolti in risposta a fattori di stress (la corteccia prefrontale mediale e cingolata posteriore).Un altro studio di riferimento è stato condotto attraverso la risonanza magnetica funzionale da un gruppo dell’Università dell’Oregon (Tang, et al., 2012). I soggetti esaminati sono stati sottoposti a uno specifico programma di meditazione mente/corpo (IBMT) di 4 settimane, a conclusione del quale le immagini hanno mostrato un significativo aumento delle connessioni che trasferiscono i segnali attraverso il cervello, così come un ispessimento della mielina in particolare nella corteccia cingolata anteriore. Dati più recenti sono quelli presentati dai ricercatori della Brown University (Kerr, et al., 2013), per i quali la pratica della mindfulness con il suo focus sul corpo attraverso il respiro sembra svolgere un ruolo centrale per la modulazione dell’attenzione che si esprime attraverso un livello ottimale di oscillazioni alfa, le stesse che normalmente si registrano attraverso l’elettroencefalogramma. È infine del 2014 una meta-analisi che mette insieme i risultati di 123 studi (Fox, et al., 2014) a dimostrare una convergenza nella ricerca scientifica rispetto alla rilevazione di modificazioni stabili nella materia grigia e bianca del cervello in aree chiave che sono implicate con la metacognizione  (corteccia frontopolare), con la consapevolezza enterocettiva ed esterocettiva (corteccia somatosensoriale e insula), con il consolidamento della memoria (ippocampo), con la regolazione emotiva (corteccia cingolata anteriore; corteccia orbitofrontale), e con la comunicazione interemisferica (corpo calloso) per effetto della pratica meditativa.

Per affermazione degli stessi neuroscienziati (Fox, et al., 2014) questo filone di ricerca necessita comunque di ulteriore approfondimento e sistematizzazione. Inoltre, il giustificato entusiasmo degli specialisti della salute mentale di individuare la controparte organica di specifici interventi terapeutici va comunque contestualizzato. È necessario, infatti, non dimenticare che i vari domini del comportamento umano si realizzano a livello di sistema nervoso centrale e periferico per reti di attivazione molto complesse e che essi riguardano sempre il coinvolgimento sinergico di più aree cerebrali coinvolte contemporaneamente (Hu, et al., 2019).

Mindfulness e età evolutiva

Una ricerca controllata e randomizzata ha valutato 68 bambini in età prescolare esposti a un programma mindfulness-based chiamato il Kindness Curriculum – il curriculum della gentilezza – della durata di dodici settimane. Lo studio mostra in questi giovani allievi capacità di apprendimento migliori, maggiore benessere, così come un più avanzato livello di alfabetizzazione socio-emotiva rispetto al gruppo di controllo (Flook et al., 2015).

Passando alla scuola primaria, uno studio del 2005 ha messo in luce come bambini coinvolti in un percorso di mindfulness della durata di dodici settimane – che includeva esercizi di respirazione, body scan e attività di consapevolezza sensomotoria – avessero, nel confronto con i coetanei, performance migliori nei test di valutazione delle loro capacità attentive (Napoli, Krech & Holley, 2005). Un altro progetto realizzato con 64 studenti della seconda e terza classe ha confermato come praticare la mindfulness a scuola comporti miglioramenti nelle capacità metacognitive (Flook et al., 2010).

Spostandoci verso la fascia di età della scuola secondaria, uno studio controllato con 120 studentesse di un istituto femminile che avevano frequentato un corso di meditazione, ha evidenziato come, rispetto alle loro coetanee, queste ragazze fossero più in grado di regolare le proprie emozioni, di accettarsi e di sperimentare un più diffuso senso di calma (Broderick & Metz, 2009).

Infine, una meta-analisi condotta su ventiquattro ricerche ha preso in esame un totale di 1.348 studenti provenienti da scuole di ogni ordine e grado, documentando come i programmi basati sulla mindfulness rivolti all’età evolutiva rafforzino la resilienza e migliorino le funzioni cognitive.

Per quel che riguarda, infine, la sfera della salute mentale una ricerca con 102 adolescenti affetti da patologie di diverso tipo ha rilevato come, dopo aver partecipato a un corso MBSR, i ragazzi esibissero, rispetto al gruppo di controllo, una significativa riduzione dei sintomi di ansia e depressione, accanto a un incremento dell’autostima e a un miglioramento della durata e qualità del sonno (Biegel et al., 2009).

Possibili effetti avversi della mindfulness

Alcuni ricercatori temono che il forte entusiasmo che circonda la mindfulness possa aver prodotto una distorsione in senso positivo dei risultati, con una conseguente mancanza di attenzione verso quei dati che non ne supportino l’efficacia. Recentemente, quindi, sta prendendo piede un nuovo filone di ricerca volto a valutarne eventuali effetti avversi.

Negli ambienti buddisti tradizionali, la comparsa di difficili esperienze psicologiche e fisiologiche connesse alla pratica è vista come parte integrante del cammino spirituale (Buffhaghosa, 1999; Dalai Lama, 2011). Gli studi condotti in questo senso – sia di tipo qualitativo che quantitativo – confermano il fatto che le persone nel corso della pratica possono confrontarsi con una serie di difficoltà (Malpass et al., 2012) e che la mindfulness, quindi, possa essere correlata con l’insorgere di condizioni negative, come, ad esempio, un incremento dell’ansia (Cebolla et al., 2017). Uno studio su meditatori esperti prende in esame la tipologia di emozioni forti sperimentate durante le sessioni di pratica: panico, ansia, paura, paranoia, depressione e dolore (Lindhal et al., 2017). L’insorgere di stati spiacevoli transitori, che può verificarsi in alcune circostanze durante la pratica meditativa, può diventare dannoso nel momento in cui metta a rischio il benessere psicologico, produca conseguenze a lungo termine o peggiori eventuali sintomi preesistenti. I dati a oggi in nostro possesso non consentono di fare affermazioni di questo tipo (Wood & Rockman, 2022).

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