Episodi relativi al rifiuto del cibo sono molto comuni durante l’età evolutiva. Essi si manifestano durante fasi di criticità e cambiamento per il bambino (ad esempio periodo dello svezzamento o dell’acquisizione dell’autonomia alimentare) e, in quanto tali, sono transitori e non prendono la forma di un vero e proprio disturbo. In questo senso, la difficoltà alimentare deve essere considerata in un’ottica di sviluppo secondo cui il processo maturativo del bambino richiede l’integrazione di capacità biologiche, cognitive e affettive per il raggiungimento di un livello di adattamento e autonomia più complesso rispetto al precedente. A questi aspetti si aggiunge l’inevitabile cambiamento che si produce a carico dell’interazione genitore-bambino che va a influire notevolmente sul rapporto che quest’ultimo svilupperà con l’alimentazione. Essa, infatti, costituisce una dimensione determinante nel compito di cura e accudimento che ogni genitore assolve, in quanto rappresenta una fonte di appagamento o apprensione qualora emergano delle difficoltà di natura alimentare. Troveremo, dunque, il genitore che stimola e incoraggia l’autonomia del figlio e quello, più insicuro, che tende a diventare iperprotettivo e inquieto.
Cos’è un disturbo dell’alimentazione
Cerchiamo ora di comprendere quando la presenza di difficoltà a carico dell’alimentazione e della nutrizione comincia ad assumere le caratteristiche di un vero e proprio disturbo di questo genere. Come abbiamo già accennato, la difficoltà in questa area dello sviluppo, l’alimentazione, può manifestarsi con modalità diversificate.
Può avere un esordio molto precoce e intenso manifestandosi con: ipereccitabilità, irritabilità, faticabilità eccessiva e interruzione precoce dell’assunzione di cibo, oppositività, collera intensa, disinteresse nei confronti del cibo, tendenze a sputarlo, rovesciare il piatto o vomitare quanto introdotto. Tale rifiuto sembra esacerbarsi quanto più l’adulto cerca di forzarlo nell’alimentazione.
Nei bambini definiti con il termine di “spizzicatori” (picky eaters) questo quadro può avere un esordio più sfumato che rientra in un range non patologico di condotta alimentare. È solitamente caratterizzato da scarso appetito e rifiuto selettivo per una gamma specifica di cibi e/o marche di cibi.
Vediamo nella seguente tabella alcune tra le caratteristiche che differenziano le due manifestazioni: la prima patologica, la seconda di natura evolutiva, dunque non anomala:
Per fare chiarezza circa la natura e le tipologie dei disturbi alimentari che possono manifestarsi durante l’età evolutiva prendiamo in considerazione due tra i sistemi di classificazione più accreditati nell’ambito della psicopatologia attuale. Secondo la Classificazione diagnostica: 0-3 (1994), specificamente rivolta alla fascia d’età tra 0 e 3 anni: “Il disturbo dell’alimentazione può manifestarsi in momenti diversi dell’infanzia, come difficoltà del bambino a stabilire pattern regolari di alimentazione con un’adeguata immissione di cibo e a regolare la propria alimentazione con gli stati fisiologici di fame o di sazietà”.
Quanti disturbi dell’alimentazione esistono
Con l’aiuto del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, noto come DSM-5 (2014), possiamo indicare i diversi quadri diagnostici rilevabili a carico dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione in età evolutiva:
- Nel disturbo della pica, il bambino tende a ingerire in modo persistente sostanze non alimentari, non commestibili come capelli, sabbia, foglie, insetti, sassi. Questa abitudine, per poter formulare una diagnosi, deve estendersi a un periodo di almeno un mese e deve risultare inadeguata rispetto alla fase di sviluppo del bambino.
- Nel disturbo della ruminazione, il bambino tende a rigurgitare il cibo per un periodo di almeno un mese. È generalmente irritabile e affamato tra gli episodi, e il cibo rigurgitato può essere rimasticato, sputato o ringoiato dal bambino stesso. Può determinare conseguenze di malnutrizione.
- Il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo comprende aspetti quali: apparente disinteresse da parte del bambino per il mangiare, evitamento del cibo sulla base di alcune caratteristiche sensoriali (olfattiva, tattile, ecc.), timori legati a eventuali conseguenze negative in seguito all’ingestione del cibo. Questo quadro clinico si associa a: una significativa perdita di peso, deficit nutrizionale, compromissione del funzionamento psicosociale e dipendenza eccessiva dall’alimentazione di tipo parentale.
- L’anoressia nervosa si manifesta con un’assunzione ristretta di calorie in relazione alle necessità. Comporta un peso corporeo che, nei bambini e negli adolescenti, risulta minore di quello previsto rispetto a età, sesso e salute fisica. A questo si associa un’alterazione del modo di percepirsi nel peso e nella forma del bambino/adolescente e, di conseguenza, un’eccessiva preoccupazione di diventare “grasso” anche se il peso è significativamente basso.
- La bulimia nervosa prevede episodi di abbuffate in cui il bambino/adolescente, in un limitato periodo di tempo, ingerisce una quantità eccessiva di cibo rispetto alle necessità e sperimenta la sensazione di perdere il controllo durante l’episodio non riuscendo a smettere. Il quadro clinico comprende, inoltre, il tentativo del soggetto di prevenire l’aumento di peso in seguito all’abbuffata, attuando condotte compensatorie quali: vomito autoindotto, abuso di lassativi e diuretici, attività fisica eccessiva. Gli episodi di abbuffata e condotta compensatoria si verificano almeno una volta a settimana per tre mesi. Il livello di autostima risulta significativamente compromesso.
- Il disturbo da binge-eating presenta un quadro clinico in parte simile a quello precedente, in quanto caratterizzato da ricorrenti episodi di abbuffata (almeno una volta a settimana per tre mesi). A differenza della bulimia nervosa, tuttavia, egli non mette sistematicamente in atto condotte compensatorie quali vomito e abuso di lassativi. Inoltre, il disagio vissuto durante le abbuffate viene manifestato con la tendenza a mangiare:
- rapidamente
- fino a sentirsi pieni
- grandi quantitativi di cibo anche se non si è affamati
- in solitudine a causa dell’imbarazzo per quanto si sta mangiando
- sentendosi depressi e disgustati verso se stessi
Quali sono le cause?
Le cause che possiamo far ricondurre alla comparsa di un disturbo alimentare in età evolutiva non convergono in un’unica direzione. La complessità di un disturbo di questo tipo porta a pensare che sia l’azione combinata di più dimensioni a determinarne lo sviluppo e il mantenimento. Tuttavia, tra i fattori maggiormente implicati troviamo:
- I fattori predisponenti: indicano una vulnerabilità personale che può essere determinata da una dimensione: genetica (ad esempio temperamentale), ambientale (interazione disfunzionale bambino-caregiver), psicologica (insoddisfazione corporea, bassa autostima), ecc.
- I fattori precipitanti: determinano l’esplosione del disturbo in quegli individui che presentano una predisposizione di questo tipo; possono comprendere: eventi traumatici, lutti, abusi, malattie, conflitti familiari, ecc.
- I fattori di mantenimento: favoriscono la persistenza del disturbo attraverso un circolo vizioso in cui le conseguenze fisiche e psicologiche del disturbo, col passare del tempo, permettono lo stabilizzarsi di stati emotivi depressivi, ansiosi, d’insoddisfazione che, a loro volta, innescano comportamenti disfunzionali (come un’ulteriore restrizione del regime alimentare) con il fine di migliorare la propria autostima. Questo meccanismo, in realtà, non fa che esacerbare la gravità del disturbo.
Valutazione e Trattamento: in cosa consistono
Abbiamo già accennato i criteri utili per formulare una diagnosi di disturbo dell’alimentazione e della nutrizione in età evolutiva. Un’attenta analisi relativa alla presenza/assenza dei sintomi indicati permette, infatti, di identificarne l’eventuale manifestazione.
Premettiamo che per poter effettuare diagnosi di disturbo dell’alimentazione è necessario escludere:
- la presenza di malattie organiche che lo spieghino
- la possibilità che il comportamento rilevato faccia parte di una pratica culturalmente sancita
- che la difficoltà alimentare costituisca un sintomo di altri disturbi mentali (disturbi d’ansia, dell’umore, ecc.).
A questo, l’intervento cognitivo-comportamentale aggiunge, in fase di valutazione clinica, la necessità di identificare tutti quegli schemi cognitivi e di comportamento individuali di tipo disfunzionale presenti a carico dei ritmi autoregolativi dell’appetito e delle modalità di assunzione del cibo. Va, inoltre, considerato che il momento dell’alimentazione è per il bambino un’opportunità di ricevere accudimento e cura da parte del genitore, il quale talvolta può rispondere con comportamenti inadeguati in grado, non solo di mantenere il problema, ma di complicarlo ulteriormente.
Una diagnosi accurata e precoce è dunque fondamentale. La valutazione così come l’intervento cognitivo-comportamentale hanno come obiettivo quello di identificare e correggere cognizioni (pensieri) distorte sia nel bambino che nei genitori al fine di modificare anche i comportamenti alimentari disadattivi a essi associati.
Tra i passi più significativi dell’intervento cognitivo-comportamentale si evidenziano dunque i propositi di:
- Fornire informazioni adeguate riguardanti il disturbo
- Identificare le cognizioni distorte alla base del disturbo operando una loro conseguente ristrutturazione
- Ridurre la frequenza e l’intensità dei comportamenti alimentari scorretti (ad esempio le abbuffate)
- Suggerire modalità alternative e più funzionali di comportamento alimentare
- Incrementare l’autostima
- Promuovere il problem solving
- Ottimizzare le capacità di autocontrollo e automonitoraggio grazie alle quali il paziente impara a riconoscere, affrontare e prevedere le situazioni a rischio (diario alimentare)
- Intraprendere un percorso di parent-training