Omosessualità e HIV

Omosessualità e HIV

La storia dell’HIV, così come la conosciamo oggi, ha un’origine relativamente breve. Non si può parlare di questo virus senza, però, andare a considerare tutta una serie di dinamiche mediche, sociali, politiche e psicologiche che da circa 40 anni sono andate a crearsi e a modificarsi.

Per comprendere come mai il tema dell’HIV abbia avuto un impatto così importante, sia dentro che fuori la comunità scientifica, è opportuno considerare una serie di punti:

  • il virus dell’HIV, se non trattato, porta alla Sindrome da Immunodeficienza Acquisita (AIDS) che è una malattia mortale;
  • vi è un coinvolgimento della sfera sessuale, ossia quell’area più delicata, importante e talvolta fragile delle persone;
  • l’HIV è un’infezione legata a determinati comportamenti di determinati gruppi di persone i quali sono facilmente giudicati in maniera negativa, divenendo così oggetto di marginalizzazione e stigma da parte della società;
  • il ruolo dei media si è rilevato fondamentale nell’influenzare la comprensione e la visione del virus HIV e di tutto ciò che ruota intorno a esso.

Cenni storici

Probabilmente il virus HIV deriva da un virus già presente negli scimpanzé e che, a partire già dalla prima metà del XX secolo ha iniziato a infettare i primi esseri umani: nel 1959, nell’attuale Repubblica Democratica del Congo, il primo essere umano a contrarre il virus sembra essere stato un membro della tribù africana Bantu (ad oggi il 30% della popolazione africana) e che all’epoca viveva a stretto contatto con animali e scimpanzé. In tal modo potrebbe essersi verificato il cosiddetto spillover, ossia il processo tramite cui un agente patogeno proprio di una specie animale, diventa in grado di trasmettersi alla specie umana.

Nel corso degli anni ‘70 si iniziarono a riscontrare alcuni casi di pazienti i quali presentavano particolari quadri sintomatologici che suggerivano uno stato di grave immunodepressione correlato a diverse infezioni opportunistiche e polmoniti.

È, però, solamente a partire dagli anni ‘80 che si assistette a una maggiore frequenza di casi di pazienti con sintomatologia ascrivibile all’AIDS: nel 1981, in California, presso i Centri di Controllo e Prevenzione delle Malattie, Centers for Disease Control and Prevention (CDC), furono identificati 5 uomini gay affetti da polmonite, Pneumocystis carinii, e altri 26 affetti da sarcoma di Kaposi (una forma di tumore delle cellule dei vasi sanguigni o linfatici).

Ciò portò alla categorizzazione dell’Immunodeficienza Gay-Correlata, Gay-Related Immune DeficiencyGRID, e all’identificazione di specifiche categorie a rischio quali omosessuali, haitiani, eroinomani ed emofiliaci. Nel 1982 per la prima volta si sentì parlare si Sindrome di Immunodeficienza Acquisita, meglio nota come AIDS.

Nei primi anni ’80, dunque, il focus delle ricerche si concentrò soprattutto sul sesso anale non protetto fra gay e sull’utilizzo di sostanze per via endovenosa.

Il 1983 si capì che la malattia non riguardava solamente uomini gay sessualmente attivi ma che poteva essere contratta da chiunque.

Si arrivò, perciò, a comprendere come la malattia non fosse un destino riservato solo ad alcuni gruppi di persone emarginate ma che le cosiddette “categorie a rischio” andassero in qualche modo riviste.

Negli stessi anni si iniziarono a diffondere i primi test per rilevare la presenza del virus nel sangue e furono sperimentate le prime terapie antiretrovirali, ART. Nel 1987, il primo farmaco ad essere utilizzato nel trattamento dell’HIV fu l’AZT, Azidotimidina, il quale portò ad una diminuzione della mortalità nelle prime 16 settimane di trattamento ma che non risultava essere efficace nelle fasi successive (Jaspal et al.; 2020). Solamente a partire dal 1996 si iniziò ad utilizzare una serie di farmaci combinati tra loro con risultati via via sempre più efficaci.

Nel corso degli anni, gli alti livelli di mortalità andarono così a diminuire e l’AIDS passò dall’essere una malattia estremamente mortale e inevitabile a una patologia cronica gestibile. A tal proposito, di fondamentale importanza è stata la capacità delle terapie ART di ridurre la carica virale nei pazienti, a tal punto da renderla invisibile negli esami del sangue, condizione che permette alla persona di non trasmettere il virus qualora andasse incontro ad alcuni dei comportamenti a rischio di trasmissione e da cui è nata l’espressione Undetectable=Untrasmissible”, U=U. Ciò ha portato a un miglioramento del benessere psicologico, sociale e sessuale dei pazienti (Tan et al.; 2020).

Dati epidemiologici sull’HIV

Per comprendere quanto il virus HIV sia diffuso è utile passare brevemente in rassegna una serie di dati (UNAIDS; 2021):

  • dall’inizio della pandemia ad oggi si sono contate 9 milioni di persone sieropositive;
  • dall’inizio della pandemia ad oggi le persone sieropositive decedute a causa dell’AIDS sono state 3 milioni;
  • nel 2022, 4 milioni di persone convivono con il virus;
  • il numero di nuove infezioni registrate nel 2021 è di 5 milioni;
  • i morti di AIDS e malattie ad essa correlate nel 2021 sono 650 mila.

Sensibilizzazione al problema

 Nel corso degli anni si è assistito a una serie di campagne di sensibilizzazione e prevenzione nei confronti dell’HIV e delle modalità a rischio di trasmissione del virus.

Certamente l’uso del preservativo rappresenta il metodo più efficace per evitare la trasmissione del virus e di altre malattie sessualmente trasmissibili. Nonostante ciò, è necessario considerare come l’utilizzo del preservativo all’interno della comunità gay, negli ultimi 10 anni, sia diminuito.

E’ perciò di fondamentale importanza andare a considerare quali sono gli ulteriori strumenti di sensibilizzazione e prevenzione.

Tra questi troviamo:

  • l’utilizzo di test diagnostici: consente alle persone di conoscere il proprio stato e modificare il proprio comportamento sessuale, e offre l’opportunità di acquisire informazioni su come limitare il rischio di infezione;
  • la Profilassi Pre-Esposizione, Pre-Exposure Prevention – PrEP: consiste nell’utilizzo, prima dell’esposizione a rapporti a rischio, di farmaci anti-retrovirali che impediscono al virus di riprodursi nel corpo evitando così di contrarre l’infezione;
  • la Profilassi Post-Esposizione, Post-Exposure PreventionPEP: basata sulla somministrazione di farmaci anti-retrovirali, in persone sieronegative successivamente all’esposizione a rapporti sessuali a rischio, compresi casi di violenza sessuale. Affinché tali farmaci siano efficaci è necessario che vengano somministrati entro le 48 successive all’esposizione al virus e per un periodo di 4 settimane;
  • la Terapia come Prevenzione, Therapy as Prevention – TasP: si riferisce al fenomeno sulla base del quale persone HIV positive, sotto trattamento farmacologico antiretrovirale costante, vadano incontro a una riduzione della carica virale presente nel sangue tale da non poter trasmettere il virus qualora avessero rapporti non protetti.

Relazione tra HIV e omosessualità

Il legame che venne erroneamente stabilità fra comunità gay e AIDS, ebbe un forte impatto sia all’interno della popolazione generale, che iniziò vedere i gay come appestati e veicolo di una malattia mortale, sia all’interno della comunità scientifica: il virus si è diffuso nelle categorie sociali non attenzionate, e la ricerca ha tardato ad esaminarne le diverse implicazioni.

Bisogna comunque prendere atto di come ricerche recenti dimostrino che persone appartenenti alla comunità LGBT abbiano una maggiore probabilità di sviluppare una serie di disturbi sia psichici che fisici, compresi quelli correlati al virus HIV (Selix et al.; 2020).

A tal proposito è necessario tenere in considerazione una serie di dati (Unaids; 2021):

  • uomini gay o che praticano sesso con altri uomini hanno probabilità 26 volte maggiori di contrarre il virus dell’HIV rispetto al resto della popolazione maschile;
  • nel 2019, a livello globale, il 23% dei nuovi casi di infezione si è riscontrato all’interno di questa stessa popolazione.
  • tra il 2010 e il 2019 il tasso di nuove infezioni tra gay e altri uomini che fanno sesso con altri uomini è salito del 25%.

Sessualità e rischio di trasmissione del virus HIV nella popolazione gay

A questo punto è però doveroso cercare di comprendere come mai si è arrivati a questi dati e quali possono essere le motivazioni ad essi sottostanti.

Motivazioni biologiche

Per prima cosa è da considerare che esistono una serie di motivazioni biologiche per le quali si assiste a una maggiore prevalenza di HIV tra i maschi gay.

Una di queste motivazioni risiede nella pratica del sesso anale: tale pratica, più diffusa nella comunità gay rispetto a quella eterosessuale, è considerata 15 volte più rischiosa per la trasmissione del virus HIV rispetto al sesso vaginale (Cresswell et al.; 2016).

Un altro fattore da tenere in considerazione è quello relativo alla presenza di malattie sessualmente trasmissibili – MST, per via del cosiddetto effetto di sinergia epidemiologica secondo cui la presenza di malattie sessualmente trasmissibili è implicata nella trasmissione del virus HIV in diversi modi (Cohen et al.; 2019).

Anche la presenza di semplici traumi localizzati, derivanti ad esempio da pratiche sessuali estreme (es. fisting) sono da considerarsi come fattori che influenzano e facilitano la trasmissione del virus dal momento che possono essere causa di lesioni nella mucosa anale.

Fattori psicologici e sociali

Non meno importanti sono i fattori psicologici e sociali che possono arrivare a modificare la percezione che le persone hanno in merito alla trasmissione del virus, ai pericoli ad esso correlati e al modo di affrontarlo.

I fattori psicologici più determinanti hanno a che fare con:

  • Pregiudizi sull’uso del preservativo: “ostacola l’intimità sessuale”, “riduce la performance”, “è una barriera al contatto emotivo permesso”, “ostacola la fiducia”, “non se ne può parlare”, “se si insiste nell’utilizzarlo porterà al rifiuto da parte del partner”, “non ho il coraggio di parlarne”.
  • Il “fattore paura”: indurre paura nei confronti del virus è stata la principale modalità con la quale si pensava di dissuadere la messa in atto di comportamenti a rischio. I dati hanno dimostrato che ciò non sorbisce alcun effetto a lungo termine. Nell’epidemia da HIV abbiamo inoltre assistito a una graduale diminuzione della percezione del pericolo. Con l’avvento e il perfezionamento delle terapie antiretrovirali, la sintomatologia grave si è allontanata sempre di più dalla presenza del virus HIV.
  • Valutazione del rischio e senso di invincibilità: corrisponde alla credenza da parte di alcuni uomini gay che, indipendentemente dal loro comportamento sessuale, non saranno infettati, arrivando così ad impegnarsi in comportamenti a rischio. Riguardo alla valutazione del rischio e al senso di invincibilità, un altro fattore da tenere in considerazione è quello dell’identità e appartenenza a uno specifico gruppo: vi è infatti la tendenza ad associare malattie e avversità a persone appartenenti a gruppi diversi dal nostro.
  • Tratti di personalità: alcuni tratti di personalità quali estroversione, impulsività e nevroticismo, ma soprattutto il sensation seeking, ossia la ricerca di sensazioni forti attraverso determinate esperienze altamente stimolanti, sembrano essere correlati con una maggiore propensione a mettere in atto comportamenti sessuali a rischio.

Fattori comportamentali

Vi sono poi una serie di comportamenti sessuali da considerare, che aumentano il rischio di trasmissione del virus HIV. Tra questi comportamenti troviamo:

  • Il sesso compulsivo, o dipendenza sessuale può aumentare il rischio di contrarre HIV e altre malattie sessualmente trasmissibili. In generale, uomini gay riferiscono di avere un maggior numero di partner e di metter in atto comportamenti sessuali con maggior frequenza (Jaspal; 2019). Tale dato però non deve essere confuso con una dipendenza sessuale, in quanto in quest’ultimo caso, la presenza di fantasie, impulsi e comportamenti sessuali, sfuggono al controllo dell’individuo e compromettono il suo funzionamento in diversi ambiti.
  • Chemsex: tale pratica, in rapida crescita negli ultimi anni all’interno della popolazione gay e di MSM (Man who have Sex with Men – uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini), può essere definita come l’utilizzo di sostanze psicoattive all’interno di un contesto sessuale. In uno studio è emerso come uomini gay sieropositivi partecipassero con una frequenza quattro volte superiore a sessioni di chemsex rispetto a uomini gay non sieropositivi (Frankis et al.; 2018). Il ricorso a queste sostanze da una parte tende a disinibire le persone nei confronti di tutta una serie di comportamenti sessuali, esponendole così a una maggiore probabilità di trasmissione (Race; 2017).
  • Online dating: i siti di Online Dating rivestono un ruolo importante nella sessualità di uomini gay. Con l’avvento e la diffusione di tali applicazioni, a partire dagli anni ’90, molti uomini gay hanno avuto la possibilità di incontrare partner molto più facilmente rispetto a prima. Bisogna, però, considerare come l’utilizzo di queste app può essere considerato un fattore di protezione nei confronti della trasmissione del virus, in quanto permette alle persone di esprimere la loro volontà di praticare sesso sicuro con più facilità rispetto a quanto farebbero incontrandosi fisicamente (Jaspal et al.; 2020).
  • Cruising: il cruising, o battuage, si riferisce a quella pratica di recarsi in specifici posti (da bar a pinete, spiagge, parcheggi, ecc.) noti per essere frequentati da uomini gay con cui avere prestazioni sessuali occasionali e senza coinvolgimento emotivo. Tale pratica, nata come reazione a tutta una serie di criminalizzazioni e misure repressive rivolte alla comunità gay, è associata al rischio di trasmissione di HIV in quanto coloro che vi partecipano hanno un numero elevato di partner e molto spesso l’atto sessuale è praticato senza l’uso del preservativo (Al-Ajilouni et al.; 2018).

Stigma, pregiudizi e criminalizzazione: gli ostacoli all’accesso alle cure

Una serie di dinamiche relative allo stigma, ai pregiudizi e alle violenze rivolte a uomini gay sieropositivi, rappresentano per questi ultimi un ostacolo all’accesso alle cure, alla diagnosi e al trattamento dell’HIV.

Al 2019, infatti, sono circa 67 i Paesi nel mondo che mettono in atto leggi contro comportamenti sessuali tra persone dello stesso sesso (Stannah et al.; 2019) e ciò ha fatto sì che uomini gay e che fanno sesso con altri uomini siano maggiormente a rischio di stigma, discriminazione e violenza rispetto al resto della popolazione.

Come se non bastasse, non è raro che la discriminazione basata sull’orientamento sessuale si possa intersecare con altre forme di discriminazione basate su differenze etniche, di genere, età, disabilità e status socioeconomico (UNAIDS; 2021).

In un ulteriore studio è emerso come la consapevolezza di essere affetti dal virus HIV sia tre volte superiore in gay e MSM che vivono in Paesi con leggi più tolleranti nei confronti della comunità LGBT rispetto a coloro che vivono in Paesi più criminalizzanti e repressivi (Stannah et al.; 2019).

Un altro aspetto da tenere in considerazione è quello che, dato lo stigma derivante dalla sieropositività, un ampio numero di uomini gay preferisce non sottoporsi ai testi diagnostici, si considera a basso rischio d’infezione e non aderisce al trattamento in caso di diagnosi positiva.

A tal proposito, un report del 2021 di UNAIDS, il programma delle Nazioni Unite per l’HIV/AIDS, riporta come solamente la metà di uomini gay e MSM abbiano avuto accesso a servizi di diagnosi, cura e prevenzione. Ciò ha portato anche un altro dato grave: il 33,5% di gay e MSM non è consapevole del proprio stato di sieropositività.

Diagnosi HIV: sintomi fisici e benessere psicologico

Come già detto in precedenza, una diagnosi di sieropositività non può escludere l’utilizzo di specifici test diagnostici. A meno che non ci si sottoponga a regolari controlli o si abbia il dubbio di essere stati esposti a rapporti particolarmente a rischio, i primi campanelli di allarme che portano la persona a sottoporsi a un test diagnostico hanno a che fare con una specifica sintomatologia fisica.

Sintomi fisici

Nella prima fase dell’infezione, più o meno le prime quattro settimane, la persona va incontro al cosiddetto processo di sieroconversione in cui vengono sperimentati una serie di sintomi simil influenzali, bocca secca, dolori muscolari e rash cutanei. In questa prima fase il virus inizia a replicarsi molto velocemente, la carica virale diventa molto alta e perciò la persona risulta essere molto contagiosa. A questo punto, il virus continua a riprodursi ma in maniera decisamente più controllata e la carica virale nel sangue si stabilizza. Il livello a cui la carica virale si è stabilizzata determinerà il tempo necessario per arrivare a una condizione di immunodeficienza: a volte possono essere necessari fino a 10 anni. Alcuni dei sintomi di immunodeficienza sono il già citato sarcoma di Kaposi, polmoniti, candida esofagea e presenza di sindromi opportunistiche.

Il benessere psicologico

Una diagnosi di sieropositività, inevitabilmente, è accompagnata da tutta una serie di dinamiche psicologiche che possono arrivare a compromettere il benessere psicologico dell’individuo.

Gli uomini gay, in quanto minoranza stigmatizzata all’interno di un contesto eterosessista, hanno maggiore probabilità di andare incontro a malessere psicologico e disturbi psichiatrici in gran parte attribuibili a maggiori livelli di stigmatizzazione, vittimizzazione, bullismo, forme di violenza e omofobia interiorizzata: trattare temi importanti quali HIV, omosessualità e salute mentale non è semplice.

L’infezione da HIV rappresenta dunque un fattore di stress psicosociale significativo e un ulteriore fattore di rischio per la salute e il benessere psicologico dell’individuo, tanto che oltre il 50% dei maschi gay sieropositivi presenta una comorbidità psichiatrica (Jaspal; 2020) tra cui:

La diagnosi di HIV può, inoltre, portare a:

Trattamento

Quanto affrontato finora ci ha messo di fronte a due grandi aspetti che caratterizzano un paziente con diagnosi di sieropositività: un aspetto medico e uno psicologico.

Per tale ragione, il tipo di trattamento da intraprendere prevede il coinvolgimento di professionisti che si occupino del versante medico-farmacologico e di quello psicologico.

Trattamento farmacologico

Per quanto riguarda il trattamento farmacologico, abbiamo già visto nei capitoli precedenti, come le terapie antiretrovirali, ART, abbiano permesso di rendere la carica virale nel sangue praticamente irrintracciabile. Ciò ha fatto sì che la persona sottoposta ad ART abbia il 96% di probabilità in meno di trasmettere l’HIV (Berenguer et al.; 2020). L’efficacia di questa terapia, stimata al 99% (O’Connor et al.; 2017) ha dunque trasformato l’HIV da malattia cronica mortale a malattia cronica gestibile. Affinché però le ART siano efficaci, il paziente deve assumere i farmaci quotidianamente e per tutta la vita.

Trattamento psicologico

Dal punto di vista del trattamento psicologico, la Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC), si è rivelata uno degli approcci maggiormente efficaci (Jaspal et al.; 2020). L’obiettivo finale di questa terapia è quello di portare la persona sieropositiva a vivere una vita qualitativamente soddisfacente, ricca e significativa (Montano et al; 2021). Raggiungere tale obiettivo implica:

  • un lavoro sulle modalità di fronteggiamento nei confronti di stigma percepito e discriminazione;
  • una ristrutturazione cognitiva delle credenze disfunzionali relative alla propria malattia;
  • un’identificazione e un incremento di nuove strategie per favorire una corretta gestione del trattamento farmacologico o della prevenzione.

La psicoterapia con pazienti sieropositivi prevede dunque una serie di fasi e strumenti:

  • Psicoeducazione: in questa fase vengono fornite informazioni, anche sotto forma di video e materiale informativo da leggere a casa o in seduta, relative al virus HIV, alle sue modalità di trasmissione, al suo decorso e prognosi, ai comportamenti a rischio e a quelli protettivi. Vengono inoltre identificate modalità di gestione delle emozioni negative, modalità su come gestire lo stigma derivante dalla diagnosi e su come costruire nuove reti di supporto sociale.
  • Messa in discussione delle credenze disfunzionali: in questa fase vengono prima identificate quali possono essere le credenze disfunzionali dell’individuo che possono portare a diversi comportamenti a rischio, quali ad esempio il non utilizzo del preservativo, la scarsa aderenza alla terapia anti-retrovirale o la paura di sottoporsi ai test diagnostici.
  • Interventi basati sulla Mindfulness: aumentare la capacità della persona di mantenere la propria attenzione sull’esperienza presente, accettandola in maniera non giudicante, porta a una maggiore consapevolezza nei confronti dei possibili comportamenti da mettere in atto (Garland et al.; 2018). Ciò porta a dei benefici riguardanti soprattutto la riduzione dell’impulsività, la riduzione del rischio di HIV correlato all’uso di sostanze, l’aumento del funzionamento del sistema immunitario e psicologico e la riduzione dei livelli di stress.

Tra le tipologie di intervento Mindfulness Based troviamo:

  • L’ACT (Acceptance and Commitment Therapy): impiegata per aiutare la persona a riconsiderare le esperienze negative e stigmatizzanti relative al proprio stato di sieropositività, attraverso la presa di coscienza di tutti quei pensieri che possono indurre ad emozioni spiacevoli quali la vergogna e attraverso l’acquisizione di una maggiore flessibilità psicologica, intesa come quella capacità dell’individuo di persistere o cambiare comportamento, rimanendo in contatto con i propri pensieri e valori e accettando le situazioni così come si presentano (Scott et al.; 2015).
  • La CFT (Compassion focused Therapy): utilizzata per promuovere il benessere e l’accettazione del dolore cronico, della disabilità e di tutte quelle emozioni e vissuti negativi derivanti dalla diagnosi di sieropositività, attraverso la promozione di un atteggiamento compassionevole verso sé stessi e verso la propria sofferenza. Il paziente HIV positivo, infatti, è spesso sovrastato da sentimenti negativi, soprattutto di vergogna verso sé stesso, arrivando così a un aumento della sintomatologia e a un graduale allontanamento e isolamento dagli altri (Greene et al.; 2015).

HIV e prospettive future

UNAIDS, il Programma delle Nazioni Unite sull’HIV/AIDS, si era prefissato di raggiungere nel 2020 l’obiettivo 90-90-90:

  • il 90% delle persone sieropositive avrebbe dovuto essere consapevole della propria sieropositività:
  • il 90% delle persone con diagnosi avrebbe dovuto ricevere un’adeguata ART;
  • il 90% delle persone sotto ART sarebbe dovuto andare incontro a una soppressione della carica virale.

Il fatto che alcuni Paesi, come la Gran Bretagna (Jaspal et al.; 2020) siano riusciti a raggiungere questi obiettivi, ha fatto sì che UNAID puntasse, entro il 2030, all’obiettivo 95-95-95 e alla totale eliminazione dell’AIDS.

Ad oggi disponiamo di tutta una serie di strumenti medico-clinici, quali uso del preservativo, utilizzo regolare di test diagnostici, PrEP, PEP e trattamento come prevenzione (TasP), volti a ottenere zero nuove trasmissioni.

Abbiamo visto però che ciò non basta: i gay devono essere disposti a usare il preservativo, a sottoporsi agli esami diagnostici, ad aderire e ad affrontare in maniera regolare il trattamento farmacologico.

Affinché ciò avvenga è necessario impegnarsi nel comprendere la logica che sottende a tutte quelle dinamiche psicosociali, quelle emozioni e quei processi cognitivi che caratterizzano uomini gay sieropositivi.

Solo attraverso una conoscenza e una comprensione adeguata dell’identità del paziente, del suo contesto sociale e delle sue norme culturali sarà possibile un’efficace prevenzione nei confronti del virus HIV.

È dunque necessario un lavoro congiunto all’interno del quale servizi medici, servizi psicologici e servizi di salute sessuale collaborino tra loro e che le istituzioni trattino il tema della sieropositività in maniera il più possibile globale, riconoscendo e affrontando tutte quelle sfumature che possono rappresentare degli ostacoli nei confronti di una corretta ed efficace prevenzione nei confronti del virus.

Riferimenti bibliografici

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