Che cosa è?
Il termine claustrofobia deriva dal latino claustrum, cioè luogo chiuso, e dal greco fobia ovverosia timore. La parola indica la paura marcata e irrazionale di ritrovarsi in spazi angusti o affollati. Quando pervasiva, persistente e limitante la claustrofobia diventa un vero e proprio disturbo d’ansia che, nelle sue forme più gravi, interessa dal 2 al 5% della popolazione.
In base al DSM 5, il Manuale Statistico dei Disturbi Mentali, la claustrofobia può essere considerata un sottotipo di fobia specifica di tipo situazionale, vale a dire legata a un determinato contesto. Colpisce in particolare le donne. L’età di esordio ha due momenti di picco: l’adolescenza – intorno ai 15 anni – e i venticinque anni.
Di che cosa ha paura la persona claustrofobica?
L’individuo claustrofobico teme oggetti e circostanze associabili a una sensazione di costrizione, di oppressione o di mancanza di libertà di movimento. La paura è generata da pensieri che hanno come nucleo il timore di essere schiacciati, di soffocare, di non potersi divincolare e quindi di svenire o addirittura morire. Se l’accesso all’aria per una qualche ragione è impedito, l’ansia o la paura tendono ad accentuarsi.
Le situazioni scatenanti possono, quindi, riguardare:
- Ascensori
- Metropolitane
- Aerei, macchine, treni
- Tunnel, grotte, cunicoli
- Stanze strette, senza finestre o con finestre che non si aprono
- Spogliatoi
- Esami medici come la TAC o la Risonanza Magnetica, che prevedono l’inserimento in una capsula chiusa e stretta.
Da notare che anche solo l’idea di ritrovarsi in una tale circostanza può precipitare la persona claustrofobica in uno stato di profonda agitazione. Da qui scaturiscono una serie di comportamenti – detti di evitamento – che possono apparire stravaganti a uno sguardo esterno e che hanno come obiettivo quello di aggirare le circostanze temute: salire a piedi sei piani di scale pur di non prendere l’ascensore o camminare due km per sfuggire alla metropolitana.
Quando nonostante tutti gli sforzi l’individuo non ha modo di sottrarsi allo stimolo fobico, l’ansia può acutizzarsi manifestandosi in una serie di sintomi fisici quali:
- sudorazione
- brividi / vampate di calore
- battito cardiaco accelerato
- vertigini
- sensazione di svenimento
- sensazione di stordimento
- respiro affannato, iperventilazione
- sensazione di soffocamento
- sensazione di oppressione e dolore al petto
L’intensità dei sintomi può essere tale da culminare in un vero e proprio attacco di panico
Perché si diventa claustrofobici?
Alcuni studiosi ipotizzano che la paura degli spazi chiusi possa essere un derivato di antichi meccanismi evolutivi di sopravvivenza che – sebbene oggi non più necessari – hanno ancora il potere di determinare la maniera in cui alcuni di noi rispondono a talune situazioni stimolo.
Altri ritengono che alla base della claustrofobia – così come di altre fobie specifiche – possa esservi una iperattività dell’amigdala, una piccola struttura cerebrale a forma di mandorla dedicata a processare le nostre emozioni e, in particolare, la paura.
Sembra, inoltre, che anche i geni giochino un ruolo fondamentale nell’insorgenza del disturbo: i figli di genitori claustrofobici hanno maggiori probabilità di sviluppare questo tipo di fobia.
Infine, l’associazione tra gli spazi angusti e la percezione di pericolo imminente può avere la sua origine nelle esperienze passate, spesso avvenute nel corso dell’infanzia: ad esempio, rimanere intrappolati per via di un incidente, essere stati messi in castigo in un luogo ristretto, essere stati maltrattati o bullizzati senza poter sfuggire. In base a un meccanismo noto come condizionamento classico, il trauma vissuto lì e allora influenza la nostra capacità di affrontare razionalmente la situazione temuta (lo stimolo fobico) qui e ora. Il corpo, che tutto ricorda, reagisce di conseguenza attivandosi come se la minaccia fosse imminente.
Come si approda a una diagnosi di claustrofobia?
La diagnosi di claustrofobia viene di solito fatta da uno psicologo o da uno psicoterapeuta: Può emergere nel corso di un processo diagnostico richiesto dal paziente per problemi di ansia non meglio specificata. Generalmente le persone claustrofobiche si rivolgono allo specialista della salute mentale quando:
- l’angoscia nell’affrontare la situazione temuta è fuori controllo e compromette la percezione di benessere personale
- le misure messe a punto per evitare la circostanza sgradita diventano tali da limitare la libertà di azione nel quotidiano
- ci si rende conto che la propria paura è sproporzionata e irrazionale
Dopo avere escluso che i sintomi fisici riportati dal paziente possano avere una qualche origine organica, o possano essere attribuiti a un altro tipo di disagio mentale, lo specialista approda a formulare una diagnosi di claustrofobia valutando:
- la tipologia, la durata e l’intensità dei sintomi
- le situazioni di innesco della paura
- le reazioni allo stimolo fobico
- le reazioni all’anticipazione dello stimolo fobico
- i comportamenti di evitamento
- la presenza (o meno) di attacchi di panico
Come si cura?
La claustrofobia può essere curata con successo e le persone possono riguadagnare un senso di padronanza e controllo sulla propria vita. Il fatto stesso che il soggetto claustrofobico riconosca la propria angoscia come eccessiva pone le basi per una buona alleanza nel corso del processo terapeutico.
La TCC ha dimostrato empiricamente di produrre ottimi risultati nel trattamento di questo tipo di fobia.
Il terapeuta cognitivo comportamentale:
- aiuta il paziente a districare la relazione esistente tra la situazione temuta e i pensieri disfunzionali che determinano l’emozione di paura. L’obiettivo è quello che il soggetto claustrofobico approdi a una valutazione più realistica dello stimolo angosciante e impari a gestire meglio i sentimenti difficili che esso genera;
- propone, quindi, la tecnica dell’esposizione alla circostanza ansiogena, che è solitamente graduale e può avvenire in vivo, in immaginazione (preferibile in presenza di un disturbo che si innesca su un’esperienza traumatica), o attraverso la realtà virtuale. Nel tempo il paziente espande la sua capacità di tollerare il disagio e di prevenire le sue reazioni abituali a esso;
- insegna, inoltre, a padroneggiare delle tecniche di rilassamento muscolare che possono essere utilizzate ogni volta che si sia esposti alla circostanza temuta e che fungono da antagoniste dell’ansia;
- infine, attraverso la desensibilizzazione sistematica supporta la persona in terapia non soltanto a sostenere la situazione temuta ma a rispondervi in modo diverso, più adattivo, non determinato dall’ansia o dalla paura. Nel tempo il soggetto claustrofobico impara che può correre il rischio di sperimentare modalità alternative di confrontarsi con il proprio disagio. Il cambiamento – assorbito nella mente e nel corpo attraverso l’esperienza – si consolida progressivamente, restituendo al paziente un più ampio margine d’azione e una maggiore sensazione di libertà.
Bibliografia
- American Psychiatric Association (APA) (2013). DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 2014
- Beck, J. (2011). La Terapia Cognitivo Comportamentale, tr. It. Astrolabio-Ubaldini, Roma, 2013
- Choy, Y., Fyer, AJ., Lipsitz JD. (2007). Treatment of specific phobia in adults. Clin Psychol Rev. Apr; 27(3):266-86.
- Vadakkan, C., Siddiqui, W. (2021). Claustrophopia. In Statpearls. Statpearls Publishing, Treausre Island
Sitografia
https://www.medicalnewstoday.com/articles/37062 (scaricato il 7/1/2022)