Il primo articolo della “Costituzione della Repubblica Italiana”, promulgata il 27 dicembre del 1947, afferma che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Allo stesso modo nella “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, approvata dall’assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948, al comma 1 dell’art. 23 è riportato che “ogni persona ha diritto al lavoro, alla libertà di scelta del suo lavoro, a condizioni eque e soddisfacenti di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione”.
A ciò va aggiunto che, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, i Paesi industrializzati hanno attraversato un periodo di crescita e sviluppo economico esponenziale che ha portato all’affermarsi della cosiddetta “Società dei Consumi”. La “Società dei Consumi” o “Consumismo” è caratterizzata dal fatto che i cosiddetti beni secondari, ossia tutti quei beni che non sono direttamente collegati alla sopravvivenza, diventino di importanza primaria e facilmente accessibili a larghe fasce della popolazione. Sotto la pressione della pubblicità e sotto la spinta da parte della società a raggiungere i modelli da essa imposti, si assiste così alla produzione e all’acquisto di beni superflui. Tutto ciò è però possibile solamente lavorando: un bene non può essere acquistato se l’acquirente non possiede soldi derivanti dal proprio lavoro e, allo stesso tempo, non può essere prodotto se non vi è un lavoro dietro.
Di conseguenza, risulta facile comprendere quanto il lavoro rivesta una parte fondamentale all’interno della nostra vita.
Già da tempo, però, ci si è resi conto di come fosse necessario lavorare sempre di più per aumentare il proprio tenore di vita e per acquisire una maggiore approvazione sociale. A tal proposito risulta estremamente esplicativo il “dilemma dell’impiegato” di Leith, del 1995, secondo il quale “per avere un buon tenore di vita bisogna guadagnare un buon salario ma per guadagnare un buon salario non puoi avere una vita”.
All’interno di questo contesto, caratterizzato da numerose altre variabili, si è iniziato a parlare di Dipendenza dal lavoro.
Il primo a parlare di “Dipendenza da lavoro” fu il medico e psicologo Wayne Oates il quale, già nel 1971, coniò il termine Workaholism, nato dall’unione delle parole work (lavoro) e alcoholism (alcolismo), per indicare la compulsione e l’irrefrenabile bisogno di lavorare.
Si ha a che fare, dunque, con una delle cosiddette Dipendenze Comportamentali dove l’oggetto della dipendenza è rappresentato da un comportamento che viene messo in atto dalla persona in maniera compulsiva e incontrollata, tanto da arrivare a interferire con vari aspetti della vita della persona.
Nel caso del Workaholism, il comportamento problematico è dunque il lavoro, ossia una delle attività più socialmente accettate e senza la quale difficilmente si riuscirebbero a raggiungere condizioni di vita dignitose in rapporto agli standard definiti dall’attuale società moderna (Atroszko et al.; 2019).
Sebbene nel corso degli anni siano state formulate diverse definizioni in merito alla Dipendenza da lavoro, ad oggi gli studiosi concordano del definirla come un disturbo caratterizzato da due dimensioni (Balducci et al.; 2020):
- una cognitiva, relativa all’intensa preoccupazione nei confronti del lavoro;
- una comportamentale, definita dall’investimento di energie, forze e tempo nell’attività lavorativa.
Nonostante non vi sia ancora un vero e proprio inquadramento all’interno dei manuali diagnostici (DSM-5 e ICD-11), sono stati rilevati una serie di sintomi che definiscono la persona dipendente dal lavoro. Tra questi troviamo (Veodato et al.; 2021):
- quantità di tempo eccessiva (più di 12 ore al giorno, compresi weekend e vacanze) dedicata volontariamente e consapevolmente al lavoro, non dovuta a esigenze economiche o a richieste lavorative);
- presenza di frequenti e intensi pensieri ossessivi e preoccupazioni collegate al lavoro (scadenze, appuntamenti, timore di perdere il lavoro) anche quando non si sta lavorando;
- sbalzi d’umore, irritabilità e appiattimento emotivo nei confronti delle attività che non hanno a che fare con l’occupazione;
- sintomi di astinenza, manifestati sotto forma di ansia, irrequietezza e panico, in assenza di lavoro;
- sintomi di tolleranza, definiti dalla necessità di lavorare sempre di più per sentirsi socialmente accettati;
- abuso di sostanze stimolanti, come ad esempio caffeina.
Da un punto di vista fenomenologico, dunque, la persona lavoro-dipendente ha perso il controllo sulla propria attività lavorativa nei confronti della quale non riesce a porsi alcun limite; ogni momento libero è caratterizzato da pensieri e preoccupazioni relativi al lavoro e si è convinti che l’unico modo di affrontare la vita e di affermarsi sia lavorare in maniera sempre più intensa. Il lavoro diventa così un modo attraverso cui definire la propria identità (Griffiths et al.; 2018).
Allo stesso modo di altre forme di dipendenza, anche quella da lavoro ha un’origine multifattoriale e di conseguenza i fattori di rischio sono da rintracciare sia a livello individuale che ambientale e sociale.
Per quanto riguarda i fattori di rischio individuali, diversi studi hanno sottolineato come le caratteristiche che possono portare più facilmente a una dipendenza da lavoro abbiano a che fare con (Spagnoli et al.; 2020):
- nevroticismo;
- perfezionismo;
- tratti ossessivo-compulsivi;
- eccessiva coscienziosità;
- sesso femminile;
- bassi livelli di autoefficacia in attività non lavorative, contemporaneamente a livelli elevati di autoefficacia in attività lavorative, in quanto credere di essere i più capaci nel gestire il proprio lavoro può portare la persona a dedicare tutto il tempo a sua disposizione nelle attività lavorative.
In maniera opposta, un’elevata soddisfazione nei confronti della propria vita, insieme a una stabilità emotiva, erano inversamente correlate a una forma di workaholism (Azevedo et al.; 2017).
Ulteriori studi hanno poi sottolineato come le donne siano più esposte alla possibilità di portare avanti l’attività lavorativa in maniera eccessiva.
Andando a considerare i fattori di rischio ambientali e sociali, questi si possono far risalire a (Mazzetti et al.; 2020):
- essere cresciuti in un contesto familiare con elevati standard genitoriali;
- innovazione tecnologica, in quanto con l’avvento di internet e degli smartphone sembrerebbero essersi assottigliati i confini tra contesto lavorativo e vita privata (si è sempre tenuti a rispondere o a lavorare anche fuori dall’orario di lavoro).
Un ulteriore fattore di rischio ambientale può essere rintracciato in specifici aspetti organizzativi del contesto lavorativo di appartenenza: nello specifico si è riscontrato come elevate richieste da parte dell’ambiente lavorativo e del datore di lavoro, e un carico di lavoro eccessivo possano contribuire alla messa in atto di comportamenti compulsivi dal punto di vista lavorativo (Dutheil et al.; 2020).
Inoltre, dal momento in cui ci si trova a dover affrontare una dipendenza patologica, è opportuno sottolineare come altri fattori di rischio più generali, ma sempre correlati alle dipendenze comportamentali, siano coinvolti nell’eziopatogenesi del disturbo. Anche in questo caso è necessario adottare una prospettiva di tipo bio-psico-sociale, la quale ci porta a identificare:
- fattori di rischio genetici, facendo riferimento a una componente di ereditarietà o ad un’alterazione della produzione di neurotrasmettitori endogeni;
- fattori di rischio psicologici e temperamentali, quali difficoltà nella regolazione emotiva, scarsa tolleranza alla frustrazione e compresenza di altri disturbi mentali (ansia, depressione, PTSD);
- fattori di rischio socio ambientali, tra cui familiarità del disturbo, esposizione ad eventi traumatici e mancanza di sostegno familiare.
Diversi studi hanno cercato di analizzare l’impatto che il workaholism può avere sulla persona e sul suo ambiente familiare e lavorativo.
Dal punto di vista delle conseguenze individuali è stato riscontrato come chi fosse affetto da una dipendenza da lavoro avesse una possibilità maggiore di riportare (Spagnoli et al.; 2019):
- stress psicologico più elevato;
- umore depresso;
- ansia;
- disturbi del sonno;
- maggiore irritabilità;
- dolori articolari;
- manifestazioni psicosomatiche.
Dal punto di vista delle relazioni sociali e familiari, si è riscontrato come una condizione di workaholism sia alla base di una compromissione di tali rapporti (Hu; 2018).
È inoltre opportuno andare a considerare come una dipendenza da lavoro possa paradossalmente influire negativamente anche sul contesto lavorativo dell’individuo. Nello specifico si assiste a (Klein et al.; 2019):
- maggiore richiesta di giorni di malattia;
- bassa soddisfazione sul luogo di lavoro;
- minor percezione di equità tra colleghi;
- minore percezione di ricompense;
- maggiore numero di infortuni sul lavoro.
Per quanto riguarda il trattamento, è opportuno essere consapevoli che, come per altri tipi di dipendenza, la messa in atto di un comportamento compulsivo da un punto di vista lavorativo può rappresentare per l’individuo una vera e propria strategia di coping attraverso la quale la persona tenta di alleviare sentimenti di ansia, vuoto e bassa autostima, dedicando tutto il proprio tempo ed energie all’attività lavorativa.
Un altro aspetto da tenere in considerazione, prima di affrontare il trattamento vero e proprio, è che il lavoro fa parte della vita di una persona adulta e che, come già sottolineato in precedenza, una maggiore produttività tende ad essere premiata all’interno della nostra società.
Adottando questa prospettiva sarà possibile iniziare a impostare un trattamento nei confronti di questi pazienti. A tal proposito la Terapia Cognitivo-Comportamentale risulta essere uno dei trattamenti evidence-based maggiormente efficaci.
Tale approccio terapeutico si avvale di tecniche cognitive che porteranno la persona ad essere consapevole di tutti quei pensieri e modi di riflettere, più o meno automatici, che portano a sperimentare determinate emozioni nei confronti dell’attività lavorativa.
Altresì importante è l’utilizzo di tecniche comportamentali finalizzate all’acquisizione e alla messa in atto di comportamenti alternativi e maggiormente funzionali mediante i quali la persona potrà gradualmente imparare a gestire la propria dipendenza dal lavoro.
- Atroszko P.A., Demetrovics Z., Griffiths M.D.; “Beyond the myths about work addiction: Toward a consensus on definition and trajectories for future studies on problematic overworking”; 2019.
- Azevedo W.F., Mathias L.; “Work addiction and quality of life: a study with physicians”;
- Balducci C., Spagnoli P., Clark M.; “Advancing workaholism research”; 2020.
- Dutheil F., Charkhabi M., Ravoux H., Brousse G., Dewavrin S., Cornet T., Mondillon L., Han S., Pfabigan D., Baker J.S.; “Exploring the Link between Work Addiction Risk and Health-Related Outcomes Using Job-Demand-Control Model”; 2020.
- Griffiths M.D., Demetrovics Z., Atroszko P.A.; “Ten myths about work addiction”; 2018.
- Hu L.; “A review of workaholism and prospects”; 2018.
- Klein L.L., Pereira B.A.D., Lemos R.B.; “Qualidade de vida no trabalho: parâmetros e avaliação no serviço público”; 2019.
- Mazzetti G., Guglielmi D., Schaufeli W.B; “Same Involvement, Different Reasons: How Personality Factors and Organizations Contribute to Heavy Work Investment”; 2020.
- Spagnoli P., Balducci C., Fabbri M., Molinaro D., Barbato G.; “Workaholism, intensive smartphone use, and the sleep-wake cycle: A multiple mediation analysis”, 2019.
- Spagnoli P., Haynes N.J., Kovalchuk L.S., Clark M.A., Buono C., Balducci C.; “Workaholism, and Job Performance: Uncovering Their Complex Relationship”;
- Veodato T., Pedro D., Garcia I.M., Aroni P.; “Workaholism and quality of life: an integrative literature review”; 2021.