Autolesionismo

Autolesionismo

Con il termine autolesionismo si intende l’insieme di tutti quei comportamenti intenzionali finalizzati a procurare un danno rivolto alla propria persona, indipendentemente dal desiderio di togliersi la vita.

La definizione che per prima ha ricevuto un accordo unanime nella comunità scientifica è stata formulata dalla World Health Organization (WHO; Platt et al., 1992) secondo cui l’autolesionismo è un comportamento:

  • non fatale;
  • intenzionale;
  • volto a danneggiare se stessi;
  • che non prevede l’intervento di altre persone;
  • finalizzato ad apportare, mediante le conseguenze fisiche attese, dei cambiamenti.

Alcuni esempi di atti autolesivi sono: tagliarsi, bruciarsi, colpire parti del corpo, ingerire degli oggetti, mordersi, assumere dosi eccessive di sostanze rispetto a quelle prescritte o considerate terapeutiche. Farsi del male è un comportamento estremamente impulsivo, infatti molte persone riferiscono che tra il pensiero di agire e l’atto stesso passano pochissimi minuti.

Il tasso d’incidenza è elevato, ed è stata riscontrata una prevalenza nel genere femminile e negli adolescenti (p.e., Plener et al., 2015; Brown & Plener, 2017). L’autolesionismo, inoltre, è un forte predittore di successivi e futuri comportamenti autolesionistici e suicidari.

L’autolesionismo è un comportamento molto diffuso negli adolescenti, soprattutto in presenza di difficoltà a casa, pressioni scolastiche, bullismo, ansia, depressione, bassa autostima, trasferimenti, uso di alcol o droghe (Hawton e James, 2005). Nella popolazione generale, è stata riscontrata una stretta associazione tra autolesionismo e assunzione di alcool e droghe, depressione, disturbi dello sviluppo o della personalità, isolamento sociale, relazioni familiari problematiche, scarsi risultati scolastici, esposizione ad atti di autolesionismo commessi da altri, basse capacità di problem-solving (p.e., Portzky & van Heeringen, 2007). McAuliffe e collaboratori (2006) hanno riscontrato che la ridotta capacità di problem solving, e in particolare la condotta di “evitamento passivo”, è associata alla presenza di ripetuti comportamenti autolesionistici. Il ricorso a questo comportamento, dunque, risulta più comune nelle persone che presentano un’elevata preoccupazione rispetto alla risoluzione dei problemi, che non si percepiscono in grado di fronteggiare eventi aversivi e che hanno la tendenza a evitare le difficoltà.

L’autolesionismo è stato considerato, inoltre, come un comportamento maladattivo finalizzato alla regolazione delle emozioni che vengono percepite troppo intense e impossibili da tollerare. Tale comportamento diventa così una vera e propria strategia di fronteggiamento di situazioni stressanti, poiché in grado di restituire (a breve termine) un sollievo dal dolore emotivo. Tagliarsi, bruciarsi e/o ferirsi in maniera ritualistica rappresentano l’unica strategia che alcune persone conoscono per regolare le emozioni intense e uscire dalla sofferenza. Alcune, per esempio, si procurano dei tagli per interrompere quella che definiscono una vera e propria “emorragia emotiva” interna, così vedendo il sangue uscire dalle ferite hanno la sensazione di liberarsi dal dolore, dall’angoscia, dalla tensione accumulata, dalla loro parte “cattiva e sbagliata”. In alcuni casi, le ferite e le cicatrici sul proprio corpo rappresentano dei segni concreti di quel dolore intenso ma transitorio che non riescono a esprimere e a comunicare, e che diventa così più vero, poiché visibile. Altri si tagliano perché in alcuni momenti hanno la sensazione di non esistere più, di non avere più sensazioni fisiche, emozioni, pensieri, obiettivi, desideri, e quindi tramite il dolore riescono di nuovo a percepire se stessi e a sentirsi vivi.

L’atto autolesionistico, quindi, permette di “lasciar uscire il dolore”, spostare l’attenzione da una sofferenza emotiva a una sofferenza fisica, ridurre il senso d’impotenza, comunicare la propria sofferenza interiore agli altri. Questi comportamenti, dunque, si presentano quando le persone sperimentano emozioni dolorose, che non sono in grado di identificare (“etichettare”), regolare e/o che non riescono a esprimere in maniera adeguata quando stanno cercando aiuto. Il frequente ricorso a queste strategie di fronteggiamento della sofferenza lo fa progressivamente diventare un comportamento abituale che poi le persone non sono più in grado di interrompere, nonostante ne percepiscano i costi a lungo termine e la pericolosità. Infatti, indipendentemente dal sollievo temporaneo, le emozioni dolorose si ripresentano, e a queste si aggiungono i sentimenti spesso innescati dall’autocritica e dall’autosvalutazione per la propria condotta.

Gli interventi clinici che si focalizzano sull’acquisizione di abilità (skills) per la regolazione delle emozioni sembrano essere particolarmente efficaci per la riduzione della frequenza dei comportamenti autolesionistici (Hawton et al., 2016). L’apprendimento di nuove strategie di fronteggiamento della sofferenza consente, infatti, di interrompere il circolo vizioso disfunzionale associato alla condotta autolesionistica. Lo studio condotto da Mehlum e collaboratori (2016) ha riscontrato, in un gruppo di adolescenti con recenti e ripetuti comportamenti autolesivi, una riduzione a lungo termine di tali comportamenti dopo un protocollo DBT (Dialectical Behavior Therapy) della durata di 19 settimane.

Autolesionismo: Bibliografia e Riferimenti

  • Brown, R. & Plener P. (2017). Non-suicidal Self-Injury in Adolescence. Current Psychiatry Reports, 19(3): 20.
  • Hawton, K. & James, A. (2005). Suicide and deliberate self harm in young people. British Medical Journal, 330: 891-894.
  • Hawton, K., Witt, K.G., Salisbury, T.L., Arensman, E., Gunnell, D., Hazell, P., Townsend, E. & Heeringen, K. (2016). Psychosocial interventions following self-harm in adults: a systematic review and meta-analysis. The Lancet Psychiatry, 3(8): 740-750.
  • McAuliffe, C., Corcoran, P., Keeley, H.S., Arensman, E., Bille-Brahe, U., De Leo, D., Fekete, S., Hawton, K., Hjelmeland, H., Kelleher, M., Kerkhof, A.J., Lonqvist, J., Michel, K., Salander-Renberg, E., Schmidtke, A., van Heeringen, K. & Wasserman, D. (2006). Problem-solving ability and repetition of deliberate self-harm: A multicentre study. Psychological Medicine, 36: 45-55.
  • Mehlum, L., Ramberg, M., Tormoen, A.J., Haga, E., Diep, L.M., Stanley, B.H., Miller, A.L., Sund, A.M. & Groholt, B. (2016). Dialectical Behavior Therapy Compared With Enhanced Usual Care for Adolescents With Repeated Suicidal and Self-Harming Behavior: Outcomes Over a One-Year Follow-Up. Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, 55(4): 295-300.
  • Platt, S., Bille-Brahe, U., Kerkhof, A., Schmidtke, A., Bjerke, T., Crepet, P., De Leo, D., Haring, C., Lonqvist, J., Michel, K., Philippe, A., Pommereau, X., Querejeta, I., Salander-Renberg, E., Temesvary, B., Wasserman, D. & Sampaio Faria, J. (1992). Parasuicide in Europe: The WHO/EURO multicentre study on parasuicide. Introduction and preliminary analysis for 1989. Acta Psychiatrica Scandinavica, 85: 97-104.
  • Plener, P., Schumacher, T., Munz, L. & Groschwitz R. (2015). The longitudinal course of non-suicidal self-injury and deliberate self-harm: a systematic review of the literature. Borderline Personality Disorder and Emotion Dysregulation; 2(1): 2.
  • Portzky, G. & van Heeringen, K. (2007). Deliberate self-harm in adolescents. Current Opinion in Psychiatry, 20: 337-342.

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