Quanto costa non realizzare i nostri desideri: tra insoddisfazione e rimpianti a lungo termine
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Riavvolgere il nastro della nostra vita come se fosse una vecchia videocassetta e sentirsi sopraffatti da interrogativi inerenti le scelte fatte, le parole non dette e quelle che avremmo voluto non dire, le azioni compiute e quelle che non abbiamo attuato. Svariate esperienze appartenenti al nostro passato possono essere oggetto di profonde riflessioni: un litigio con una persona a noi cara, una storia d’amore naufragata, la scelta di un percorso di studi, una decisione familiare.
A chi non è mai capitato di pensarci e ripensarci domandandosi: “se solo avessi fatto…o detto”; “chissà come sarebbe andata se quella storia d’amore non fosse mai finita”; “…se avessi avuto il coraggio di rischiare accettando quel lavoro”. In questo viaggio a ritroso nel percorso di vita, non è raro imbattersi in uno spiacevole senso di frustrazione connesso sia alla consapevolezza che alcune decisioni hanno avuto risvolti negativi, sia al non sentirsi realizzati come si sperava (da un punto di vista professionale e relazionale). Ma è più il rimpianto per le azioni non compiute o il rammarico per quelle realizzate e risultate fallimentari a farci soffrire?
La ricerca scientifica mostra che sono i desideri irrealizzati e le azioni non compiute durante il corso della propria vita, ad assumere la forma di rimpianti duraturi che persistono nel tempo (Davidai et al., 2018). Ma cosa vuol dire rimpiangere qualcosa? Il rimpianto è un nostalgico ricordo di qualcosa che si sarebbe voluto fare ma che non si è potuto (o voluto) realizzare.
Alcuni ricercatori (Davidai et al., 2018) ne hanno indagato la natura alla luce di tre diverse componenti del sé: il sé reale, il sé ideale e il proprio sé. Il sé reale farebbe riferimento alle caratteristiche che la persona presume di possedere; il sé ideale a ciò che la persona desidererebbe possedere in base alle proprie speranze, obiettivi, aspirazioni e desideri; il proprio sé a ciò che l’individuo ritiene di dover essere ottemperando tutti i doveri e gli obblighi che gli si richiedono. Circa il 72% dei partecipanti (73 su 101) allo studio hanno riferito in maggior misura di un’insoddisfazione e di rimpianti relativamente alle aspirazioni e ai desideri non realizzati, quindi relativi al sé ideale (rispetto alle altre forme del sé): essi avevano un maggior numero di rimpianti circa il non essere la persona che avrebbero voluto diventare (discrepanza tra sé attuale e sé ideale) piuttosto che rimpianti relativi al non essere la persona che avrebbero dovuto essere (discrepanza tra il sé attuale e il proprio sé), senza alcuna differenza significativa rispetto l’età e il sesso delle persone. La spiegazione di questo, secondo gli studiosi, andrebbe ricercata nelle differenti modalità con cui le persone affrontano il rimpianto: queste sarebbero più abili nel gestire fallimenti relativi ai propri doveri e alle proprie responsabilità che vengono percepiti come più concreti e attuabili; piuttosto quelli derivanti da obiettivi e aspirazioni irrealizzati (connessi al sé ideale) avrebbero maggiori probabilità di rimanere irrisolti (poiché più generici e astratti) lasciando le persone più propense a rimpiangere di non essere tutto ciò che avrebbero potuto essere.
Dunque il rimpianto per non aver realizzato ciò che si desiderava può restare acceso dentro di noi come una piccola fiammella e procurarci malessere. Se da un lato un rimpianto potrebbe rappresentare uno stimolo a riprendere in mano la vita e quello che ci si è lasciati dietro, dall’altro il rimuginare sul passato potrebbe alimentare pensieri e sentimenti negativi (senso di colpa, tristezza, rabbia, sconforto) che rendono più complicate anche decisioni future. Immaginiamo di aver rinunciato a un lavoro a cui ambivamo da sempre per il timore di non essere all’altezza. Di ritrovarsi dopo anni ad attendere una nuova opportunità valida come la precedente, che sembra non arrivare mai. Ripensando alla nostra scelta mancata, potremmo essere pervasi da un sentimento di rabbia verso noi stessi per non aver osato rischiare, per non aver colto un’occasione importante. E immaginiamo che a questi sentimenti si accompagnino pensieri pessimistici e auto-svalutanti “sono stato uno stupido”; “un’occasione del genere non mi capiterà mai più”; “sono un fallito”.
Questa condizione (sia cognitiva che emotiva) potrebbe innescare un circolo vizioso rendendoci, nel lungo termine, incapaci di attivarci nella ricerca di un altro lavoro.
Nella pratica clinica non è raro imbattersi in situazioni di malessere legate proprio all’incapacità della persona ad affermare se stessa (i propri desideri, le proprie aspirazioni e obiettivi), ad attuare scelte e prendere decisioni che la vita di tutti i giorni richiede continuamente. In alcune persone è frequente riscontrare la sensazione di vivere una vita molto diversa da quella che ci si era raffigurati nella propria mente; una vita caratterizzata dalla rinuncia a una parte di sé per incarnare ruoli sociali e ottemperarne i relativi doveri e obblighi: il buon padre di famiglia, la madre attenta e premurosa, il compagno/a perfetto/a, il lavoratore esemplare, l’amico che tutti vorrebbero, il figlio prediletto. Ruoli che si indossano ogni giorno con apparente disinvoltura ma che talvolta sono frutto di scelte “dovute” e non “volute”. Si finisce così per intraprendere percorsi professionali e scelte relazionali che non rispondono alle proprie ambizioni, ma ad attese sociali che sentiamo di non poter deludere.
La ricerca scientifica (così come la pratica clinica) getta luce sulla necessità di stimolare le persone sin dalla loro infanzia e a partire proprio dai contesti educativi (casa e scuola), ad alimentare il proprio senso di autoefficacia “facendo e agendo”; affinché nonostante gli errori di valutazione e le scelte sbagliate o mancate in cui si può incorrere nel proprio percorso di vita, possano rialzarsi con sguardo sempre proteso al futuro.
Riferimenti:
- Davidai, S., & Gilovich, T. (2018). The ideal road not taken: The self-discrepancies involved in people’s most enduring regrets. Emotion, 18(3), 439-452